Mai come nei periodi di difficoltà e crisi, personale e storica, diventa urgente, pressante la scelta (perché di scelta a mio avviso si deve trattare!) della lente da posare sui nostri occhiali; della lettura da dare alle cose. La realtà dentro e intorno a noi, a guardarla bene (nel profondo, o allargando anche le coordinate mappali dello spazio di osservazione) presenta sempre motivi di forte preoccupazione o tristezza. A noi come viverla. Come vivere. Non credo che ad alcuna persona sia facile ricordare un periodo in cui ha sentito che tutto fosse perfetto, ideale; o se così è stato, era senz’altro accompagnato dall’inconsapevolezza anagrafica o culturale; non escludo caratteriale. Probabilmente, quando abbiamo la sensazione che in un prima indefinito eravamo più felici, è anche per quella facoltà migliorativa, quella capacità edulcorante, e forse selettiva, che è propria della rimembranza. Sono quasi certa che anche l’infanzia, sempre additata come tipica età felice, non sia in tutto serena e scevra da ansie e preoccupazioni; anche per i bambini più fortunati. Non parliamo degli altri! Papa Benedetto XVI, quando vestiva ancora l’abito cardinalizio, appena un anno prima della fumata che elevò il suo nome al soglio pontificio, in un’intervista del 2004 in cui gli si chiedeva se nel considerare i numerosi e preoccupanti comportamenti etico-sociali segnati da diffusa indifferenza, intolleranza, aggressività, o fenomeni come la crescente denatalità, l’immigrazione o la violenza lui fosse pessimista o ottimista, definì queste due alternative “categorie emozionali”; quanto a lui preferì dirsi “realista”. Dalla nostra vita quotidiana, alla filosofia, alla letteratura, all’arte, il campionario di esempi e citazioni potrebbe essere amplissimo su questo fronte. Picasso per spiegare la differenza tra ottimisti e pessimisti definì i primi quelli capaci di trasformare un punto giallo in un sole, gli altri quanti invece rendevano il sole un semplice puntino giallo. Il sole, il puntino e il giallo sono sempre quelli. All’artista la scelta di cosa regalare agli altri attraverso il suo filtro, la sua visione, il suo talento. Perché alla fine, secondo me, di questo si tratta. Non tanto di come noi sentiamo o percepiamo dentro; ma della consapevolezza, matura, che ognuno di noi -pur realista!- sente di avere del proprio ruolo, piccolo o grande che sia, nel mondo. Di come ognuno gestisca i propri talenti, pur nel comune timore. Se li usi per costruire fiducia e speranza, o solo sterili paure. Della scelta di coltivare o meno il nostro giardino -per noi e per gli altri-, pur sapendo che potrebbe non fiorire. Insomma, della missione che assegniamo al nostro vivere, della nostra coscienza sociale, del nostro concetto di bene comune, che non è mai solo quello materiale, ma è molto più spesso immateriale. La visione del mondo e la percezione di cosa siamo noi stessi nel mondo è forse uno dei fronti più complessi ed alti su cui si misura la grandezza dell’atto educativo e formativo. Spirituale anche. Quando qualche giorno fa ho riascoltato la parabola dei servi e dei talenti, da sempre una delle mie preferite, ho voluto capirne qualcosa in più e metterla insieme ad altre riflessioni. Ho trovato davvero edificante (e ne raccomanderei la lettura) il commento del teologo Ermes Ronchi. La parabola dei talenti è il poema della creatività, senza voli retorici, perché nessuno dei tre servi crede di poter salvare il mondo. […] è una lieta notizia contro la paura, perché la natura non è creativa, rende conservatori ed è sterile. Quante volte abbiamo rinunciato a vincere solo per paura di finire sconfitti! Così il modo più semplice, il modo più sicuro per non arrivare da nessuna parte è rinunciare a partire. Paura. Ecco, non si tratta di pessimismo o ottimismo. Tutti, oggi in particolare; tutti, e qualcuno in particolare, perché magari sta attraversando un momento più difficile; tutti abbiamo paura. Ed è realistico, perché è concreto, sempre, il rischio di perdere, di non vincere, di non farcela. Superbe fole, illusioni sciocche non s’addicono alla natura eroica dell’uomo. Certo. Ma, pur nella realistica constatazione della difficoltà o della fatica del vivere, occorre trovare sempre quel nodo di azione, quel valore sociale, umano ed etico che ci rende consapevoli che ognuno di noi è chiamato a mettere a frutto, attraverso diverse strade e linguaggi, i propri talenti per migliorare, seppure di poco, il giardino della vita. Nostra e degli altri. Di milioni di persone. O magari di una. Nella logica dell’universo non cambia la quantità. In questo periodo, forse, i nostri bambini, i ragazzi, i giovani, pur carichi di talenti (bellezza, creatività, gioia, intraprendenza, intelligenza, desiderio d’amare, voglia di dare e di essere), stanno respirando, in casa e nella società, un clima di incertezza e di timore. Non educhiamoli nella paura. Il regalo più bello che possiamo fare loro è, attraverso parole e testimonianze, accompagnarli nella consapevolezza, guidarli nella opportuna prudenza, ma liberarli dai timori e incoraggiarli sempre ad investire le loro ricchezze, a realizzare le loro potenzialità, perché non farlo sarebbe -sì- il peggiore fallimento. Seppellire il proprio talento per paura di perderlo è la più grande sconfitta. Per questo meritevole di rimprovero. Candide, protagonista dell’eroicomica odissea illuminista di Voltaire, pur armato di spada contro il troppo facile ottimismo che inneggia al migliore dei mondi possibili, chiude il suo percorso di formazione prendendo in prestito dal suo autore la vanga e il giardino che questi realmente amò. Il viaggio, tra mille peripezie e svariati incontri, ha dato a Candide la consapevolezza del male del mondo; ma un ultimo incontro suggerisce al nostro la chiave di svolta, che non è certamente all’insegna della chiusura o dell’individualismo egoistico. “So anche” (e questo “anche” è il segno della consapevolezza acquisita) “che bisogna coltivare il proprio giardino”. “Hai ragione” disse Pangloss; “perchè quando l’uomo fu posto nel giardino dell’Eden, ci fu posto ut operaretur eum, perchè lo coltivasse. E così, con un richiamo che non avrei dubbi a collegare alla suddetta parabola, ciascuno si mise a esercitare i propri talenti. Di sponda in sponda, attraverso il mare universale del pensiero e dell’etica, affido la conclusione ad un passo delle Lettere di Gramsci dal carcere, quando alla fine degli anni ’20, scrive: Ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare gente sobria, paziente, che non disperi dinanzi ai peggiori orrori e non si esalti a ogni sciocchezza; e poi chiude riprendendo un’espressione del premio Nobel Romain Rolland: pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà. Emozione e disciplina, nobiltà ed eroismo, consapevolezza e generosità.