NUGAE - Sul senso dell’esserci e la ricerca della propria Ars
Si può ancora contrastare il meccanicismo inerte del vivere inconsapevole?
Composti andiamo via, lo sguardo silente. Tornati, ancora una volta, a contatto con l’ineluttabile, che si è appena abbattuto sulla vita altrui, ci immergiamo nelle umide contrade della nostra vita, dove la mente ripercorre, in una sequenza velocissima di fotogrammi impressi nella celluloide della sfera emotiva, momenti vissuti, sguardi ormai persi, speranze segrete, abbracci mancati, parole abusate, paure represse, taciute, esorcizzate in quel vortice di iperattivismo diffuso che travolge e stordisce le nostre esistenze.
La quotidianità ci vede fintamente inconsapevoli: corriamo, agiamo, rincorriamo scadenze e giorni segnati in agenda, ma non come tappe di un percorso programmato, finalizzato, scandito, assimilato; no, questo rientrerebbe in una dimensione voluta, costruita, ricercata, che per lo più ci appartiene ed impegna, opportunamente, fino ai trent’anni. Dopo, invece, - come se avessimo assolto ad ogni dovere verso noi stessi! - intasiamo il nostro tempo di fardelli, cartelli, a volte orpelli, trattandolo come risorsa infinita, moneta senza valore, giacimento da sfruttare senza avvedutezza e rispetto. Sbrighiamo l’emergenza, oramai continua, specie quando dentro e intorno mancano chiarezza d’obiettivi, condivisione, comunicazione sana e ben strutturata; organizzazione e metodo non sono curati, vengono meno le certezze e il sistema non funziona. Che poi, più o meno direttamente, il sistema non siamo anche noi? Non è un insieme connesso e funzionale di elementi e, innanzitutto, persone? Ma tant’è! Per sopperire, per tirare avanti, tratteniamo il respiro, procrastiniamo il cambiamento, il buon vivere, e intanto tradiamo, proprio nella nostra dimensione più personale, quel principio di sostenibilità che andiamo inseguendo -a volte solo sbandierando ormai-, in ogni altro ambito, meno che in quello tutto nostro e più intimo. Attori distratti, portiamo in scena, giorno per giorno, un modello di riferimento profondamente sbagliato per le generazioni dei giovani, consegnando loro il copione perfetto per una vita marcata da ansie e infelicità.
Questo finché non cadiamo in quei giorni in cui un tragico evento esterno, collettivo, o un trauma interiore investe la vita nostra o d’altri a noi vicini; una telefonata che non avremmo mai voluto ricevere o una dolorosa esperienza diretta incidono, allora, una battuta d’arresto alla comune corsa impazzita; e la forza d’attrito, subentrata sulla superficie scivolosa della nostra sterile rincorsa, ecco che ci frena. A questo punto rallentiamo; a volte ci fermiamo; e tutto intorno a noi, “per un po’”, si ferma. “Per un po’” pensiamo; riflettiamo; sembriamo ravveduti, pentiti, più consapevoli. Pronti e attrezzati per il cambiamento di rotta. Ma cambiare è davvero cosa complessa! E presto tutto ritorna come prima…
Ma perché è cosi difficile modificare il nostro stile di vita?
Non è nuova la tendenza ad assumere la fisica come metodo di analisi anche per fenomeni sociologici o psicologici. E questa volta sono Galileo prima e Newton poi ad offrirci una possibile, iniziale, spiegazione, presentandoci, tra le leggi della dinamica, le linee di quel principio di inerzia che spiega la tendenza di un oggetto (anche di un essere?) a mantenere inalterato il proprio stato -sia esso di movimento o di quiete- se non sotto l’azione di una forza esterna. Insomma, se ci consideriamo al pari di corpi che semplicemente “stanno” o “si muovono” nell’universo, siamo portati alla ripetizione, infinita, dei nostri schemi di comportamento, istintivamente abitudinari, centrifugati in quel meccanicismo che, lungi dall’essere solo schema di interpretazione scientifica, è diventato l’ossatura portante del riduzionismo materialistico della nostra società occidentale, troppo spesso immemore di ogni dimensione finalistica.
L’origine del termine inerzia viene da IN-ERS, adattato da IN-ARS, ossia privo di arte.
Ma ARS non è segno solo di un’azione pratica, produttiva, meccanica; essa è molto di più. È linguaggio creativo, intuizione, passione, capacità, studio, ricerca, volontà. Sapienza e istinto uniti da un filo invisibile; ispirazione divina e intelligenza umana legate dal riconoscersi come esseri pensanti, immersi in una continua ricerca di equilibrio tra il finito e l’infinito; tra paura e possibilità; tra limite e ricerca del meglio.
E la prima e più alta espressione di questa ARS non può che essere proprio il nostro progetto di vita. Perché, ci ricorda Heidegger, il nostro primato ontologico si esprime proprio in questa capacità di progettare il nostro tipo di esistenza; nel nostro scegliere cosa e come essere nel mondo, ossia il nostro esserci.
E forse, pur nel dolore, pur nella sensazione costante di ingiustizia, pur nella fatica profondissima dell’accettazione,a livello generale, la nostra vita ha bisogno di questi momenti di incontro con l’ineluttabilità della fine per misurarsi, per cercare di dare il meglio; per tenere sempre salda (paradossale?) la nostra ars vivendi, rifiutando l’inerzia -espressione di un materialismo meccanicistico inconsapevole, non pensante, che sperpera e svaluta la vita-, per scegliere ogni giorno l’Arte e la sua più alta Musa, che è l’Amore in ogni sua forma.
(nella copertina Octavia Monaco, Le Moire)