L’anima, i luoghi e il vissuto
Dal daimon, al genius loci, alla ricerca di sé, in un dialogo silente tra spazi e persone, nella dimensione triplice e fluida del tempo
Non sono mai riuscita ad immaginare, figurativamente, ciò che chiamiamo anima, o insomma la parte immateriale del nostro essere; ma ho sempre percepito come tra essa e i luoghi ci sia una stretta interrelazione. Per gli antichi filosofi, d’altra parte, e tutt’ora per la cultura orientale, i luoghi sono essi stessi anima. Hanno una loro energia vitale. Cosa che l’Occidente sembra in buona parte aver dimenticato.
Essi -i luoghi- vivono sospesi in una dimensione che sta a metà tra il loro genius e i contorni del nostro vissuto. Il primo esiste nei luoghi in sé. Il secondo agisce in noi. E tuttavia entrambi si definiscono in un dialogo, implicito, silente, tra lo spazio e la persona. In una dimensione che necessita di ascolto. E di una sana e profonda topofilìa.
Nei luoghi vissuti troviamo angoli di un altro noi stessi, che d’improvviso incontriamo, stupiti d’essere stati così, ma anche più consapevoli sul senso di quello che di fatto oggi siamo. Tra i ciottoli e gli incroci risentiamo spasimi e vibrazioni di ciò che eravamo, che in parte ancora siamo, e che domani, forse, chissà.
Ma c’è anche uno spirito dei luoghi che non deriva dal nostro vissuto; che esiste a prescindere, forte di vita propria.
Assimilabile ad una sorta di daimon per gli antichi greci, definito genius dai più vicini romani, esso sembra essere un’entità propria dei luoghi, di alcuni in particolare. Anche se l’antico commentatore dell’Eneide, Servio, ci ricorda che “nullus locus sine genio”.
Vive in essi, a priori, ed è pronto a manifestarsi al viandante o all’abitante, nelle forme di un’epifania, una rivelazione inaspettata che può creare benessere o sgomento, armonia o disagio, appagamento razionalmente inspiegabile, o panico, altrettanto incomprensibile. Ma richiede, in ogni caso, di essere riconosciuto.
Si tratta di una sorta di identità, unicità, vocazione, specificità stratificata nei secoli, sulla cui complessità hanno sicuramente inciso, in varie forme, anche le persone che hanno nel tempo vissuto quei luoghi, plasmandoli, assecondandoli, portandoli a progressive e parziali realizzazioni, e che poi ad essi rimangono legate, sotto forma di anime protettrici, numi tutelari. Spiritualità impalpabile ma presente. Percepibile. Non a caso il genius loci era per i romani spesso associato ai Lari, le divinità familiari, assimilati, anche per etimologia, al focolare domestico e al padre.
Mi emoziona scrivere quest’ultima nota, perché l’eco della “casa”, da sempre riposta in me -al di là e prima di ogni sovrastruttura culturale-, è stata esattamente quella del focolare e quella di mio padre. A livello istintivo, a prescindere dalla constatazione, innegabile, che sia stato femminile il motore, la forza trainante della famiglia.
L’intersecarsi delle due dimensioni di spazio e tempo non avviene solo dal passato verso il presente, ma anche da questo verso il futuro. I luoghi che viviamo o attraversiamo sono anche pregni del nostro domani, di immaginazione, di fantasticherie, rêveries le chiama il filosofo francese Bachelard nel suo interessantissimo saggio “La poetica dello spazio”, in cui questo viene collegato all’idea stessa di felicità.
Camminiamo su strade imbevute di storia, o in contrade sudate da innumerevoli estati di altre generazioni; ma intanto, se ci mettiamo in ascolto, vediamo immagini di noi, catturiamo istanti di futuro. Per un attimo afferriamo forme, riconosciamo volti e parole. Poi, d’improvviso, più niente. Il domani rubato si scioglie. Svanisce, allo svanire di quell’inaspettata, furtiva, rivelazione.
La riflessione sul genius loci, nei secoli, ha assunto varie ripercussioni, fino all’idea che esso sia anche un’essenza antropologicamente condizionante. Ossia i luoghi, con la complessa definizione geografica e sociale che ad essi possiamo dare, sembrano poter esercitare una diretta influenza anche sui caratteri dei suoi abitanti, insieme a tutti gli altri fattori genetici, culturali, ambientali.
Che ciò sia vero o meno non so. Ma credo lo sia in buona parte. Così su di me. Tuttavia, l’aspetto che più mi sta a cuore è chiederci se oggi siamo capaci di ascoltare il genius loci della nostra terra. Lo sappiamo riconoscere, definire, e soprattutto rispettare? Qual è la sua essenza?
Parlare di genius loci, appunto, non è solo parlare di passato, ma anche intuire il nostro domani. Significa parlare di architettura, sviluppo urbano, progettazione, economia, qualità del vivere. Di come sentiamo, vediamo, vogliamo questa terra.
L’archittetto Frank Lloyd Wright, nella sua opera “La casa sulla cascata”, lancia un forte monito: “quando si costruisce una casa quella casa non deve mai essere sulla collina, ma deve essere, invece, della collina, appartenerle”.
Quando una città -intesa nelle sue differenti declinazioni- non riesce a trovare un senso e una nuova, rispettosa, funzione ai volumi che un tempo la definivano; chiude le porte di quei luoghi dove maggiormente il suo spirito e il suo carattere si sono manifestati; ignora la potenzialità della sua fascia collinare, scrigno di alcune tra le testimonianze botaniche, sociali e architettoniche più forti del suo carattere autentico e originale; sottovaluta la forza e il valore del paesaggio; non avvicina la sua montagna, carica di sacralità, ad una popolazione che avrebbe bisogno di tanta più ispirazione e forza; non coltiva a sufficienza speranze, non destina spazi e non costruisce a pieno opportunità per i suoi bambini e i suoi giovani… mi chiedo se questa città stia davvero ascoltando, riconoscendo, rispettando e onorando il suo genius loci. La sua anima. Che è poi la nostra! Consapevolezza, energia e forza vitale di ognuno di noi che la abita; di quelli dopo di noi; e di quelli che la vivranno come cittadini temporanei.
Riflessione amara, mi rendo conto, ma che vorrebbe servire da sprono. Interrogativo collettivo, posto non tanto per recriminare, quanto per ripensare, in vista dei tempi fluidi che ci aspettano. Domanda aperta, che ho chiamato a completare -e per ora concludere- questo ciclo di cinquanta conversazioni con me stessa e con i lettori de L’Eco dello Ionio, ai quali va il mio più sincero ringraziamento per avermi sorretta, incoraggiata, arricchita, accompagnata in questa piccola navigazione domenicale che è stata “Nugae”.