Alla ricerca di una narrazione “su misura” per parlare degli abissi del male umano
Si può “fare memoria” proteggendo i bambini da un’angoscia troppo più grande di loro e senza lieto fine. Dal dolore della Storia ad una sfida costruttiva e quotidiana per la Vita
La narrazione, in tutte le sue forme, rappresenta il terreno privilegiato in cui riconoscere, seminare, coltivare, raccogliere le emozioni dei piccoli. Quelle che ancora non hanno parola, quelle a cui loro non sanno dare un nome. Spesso neanche noi adulti. Quelle che i bambini pensano appartenere solo a loro e ritengono, anche per questo, insormontabili. Quelle che, non accompagnate a venire a galla, a volte restano represse nelle stanze del silenzio, fino a prendere forme e vesti via via più complesse e criptate. Quelle che di notte arrivano al buio, tra un’ombra deformata sulla parete e quel senso di vuoto e paura che bagna il piccolo cuscino o il materasso. Quelle che, più grandini, se non “curate”, spengono tanti sguardi!
Fragilità, ansie, paure.
Non condivido la pedagogia del dolore che fa da sfondo a tanti racconti che hanno animato la nostra infanzia e ancora di più quella dei nostri genitori e nonni. Ho sempre pescato in un tipo di letteratura per l’infanzia alternativa, oggi molto nutrita, per fortuna, e, a mio avviso, più consona a proteggere il giardino dell’innocenza. Costretta dalle circostanze, con i miei figli ho spesso censurato o edulcorato.
Se un principio di immedesimazione deve portare il bambino a trovare in se stesso la forza di reagire alle difficoltà della vita; e se il lieto fine -pur quando pagato al caro prezzo di un incipit sempre amarissimo- deve costruire in lui ottimismo e fiducia, perché questo processo avvenga occorre una capacità di rielaborazione, analisi e interpretazione che richiede un po’ di anni. Nel frattempo, trovo più sano costruire una più serena base di sicurezze e spensieratezza, in una progressiva semantizzazione delle emozioni.
Ogni storia di tristezza e violenza, buttata lì, senza attenzione, lascia un’ansia diffusa, quando non anche un trauma del tutto inadeguato alle deboli forze dell’infanzia.
Fin dai primissimi anni della primaria, però, arriva un giorno di fine gennaio in cui, tra fiocchi di neve, un due tre stella, e giorni della merla, il piccolo scolaro, così, tra giochi e farfalle, merende e gessetti, si sente raccontare di bambini che da un binario di una stazione sono stati ammassati in carri bestiame; strappati da mamma e papà; donne e uomini tosati, privati dei loro nomi, marchiati da numeri, coperti di pigiami a righe, lerci, freddi, che stavano in file per una scodella di minestra troppo liquida; derubati di ogni residua forma di dignità umana o di essere vivente; entrati in docce da cui non sono mai usciti. E tutto senza la via di fuga del poter dire, come per le favole, “sereno, tesoro, è tutto inventato!” perché, “Questa, bambini cari, è tutta una storia vera da non dimenticare; successa non tanti anni fa e neanche troppo lontano da qui. Chiedetelo ai vostri nonni!”
Sguardi persi. Lacrime che ballano in quegli occhioni spalancati. Risate nervose. Lingue che non parlano a chiedere di più. Perché non vogliono sapere di più. Parole precise sentite, impresse, ma che non capiscono bene: sciò…sciò? Nazis… com’è che era? Eb…eb…ebreo? E che colpa è? Cos’hanno fatto di male o sbagliato? “Mamma, ma noi siamo pure eb…rei? E chi sono questi mostri venuti a torturarli, costringerli ai lavori forzati, ammazzarli??? No, papà, non mostri da un altro mondo. Hanno detto che sono stati uomini. Altri uomini come noi. Posso dormire con voi stanotte? Non mi lasciare, tienimi stretto, mamma. “
Ora vi prego, spiegatemi il senso, l’utilità, la pedagogia formativa che sta dietro questa modalità di fare rivivere, con i bambini, una memoria così dolorosa e abissalmente tragica!
Certamente non sono nessuno io per pretendere di essere nel giusto. Allora andiamo più a fondo.
2018. Ottantesimo anniversario delle leggi razziali. Il Miur emana le Linee Guida Nazionali “Per una didattica della Shoah a scuola”. Nonostante qualche errore di valutazione che lo stesso Ministero ha in questo campo fatto e ripetuto in questi anni, tuttavia, qui, per fortuna, si precisa, ove mai ce ne fosse bisogno, che, fra le molteplici possibilità didattiche, le scelte vanno commisurate all’età ma anche alla sensibilità degli studenti. E poi si continua: la moderna pedagogia e l’esperienza didattica internazionale hanno individuato per i bambini delle scuole primarie modalità di approccio graduali e non traumatiche. E altrove: l’enormità dei fatti accaduti fanno sì che l’attenzione non si esaurisca mai nella sola dimensione storica .
Parlare della Shoah, onorare la giornata della memoria, è una preziosissima occasione didattico-educativa, ma non è un obbligo che si assolve, in una veloce ora di lezione, entrando nel vivo di una cruda verità storica. Dinamiche, contorni e vicende di questa, attraverso fonti e studio, si potranno progressivamente conoscere negli anni, in proporzione all’età di chi ascolta. E sempre accompagnando i fatti da commenti, dibattiti, riflessioni. Nel frattempo, ma anche dopo, l’analisi si può utilmente incentrare su quello che può diventare un importantissimo laboratorio valoriale e di cittadinanza attiva, ragionando “intorno” all’antisemitisimo, al razzismo e alla violenza in modo non traumatico e in chiave costruttiva; rinforzando la fiducia e l’amore verso la vita, verso la giustizia, verso l’Uomo nell’accezione più alta e dignitosa di cui pur la Storia ci offre testimonianze.
Se proprio volete, iniziamo pure ad accennare -senza addentrarci troppo!- a queste storie di sofferenza, ma concludiamo sempre proponendo le figure dei Giusti tra le Nazioni; privilegiamo, con i piccoli almeno, i racconti su quelli che ce l’hanno fatta. I bambini hanno il diritto al rispetto per la loro età dell’innocenza, unica, breve, irripetibile; come i genitori hanno il diritto di tutelarla e di venire coinvolti in scelte diverse, anche quando è la scuola a farle.
Le linee guida del Miur del 2018 non offrono alcun dubbio: è rischioso offrire nelle scuole primarie storie, e tanto meno filmati, che riguardino direttamente i campi di sterminio e il genocidio nazista. Quando lo si fa, inconsapevolmente, si getta sui nostri figli un fardello che, dopo quelle due orette di lezione, resta tutto sulle loro spalle, nei loro animi, sotto forma di angoscia incomprensibile e credo non utile, neanche in un’ottica futura.
Si possono, quindi, trovare altre modalità, positive, per parlare “intorno alla Shoa”?
Rispetto verso l’altro; compartecipazione alle vicende di chi mi sta vicino; empatia; ricchezza di ogni diversità; valore di un nome e della propria unica individualità; importanza del custodire la propria memoria personale, familiare, identitaria; uguaglianza di diritti; grandezza del coraggio, dell’altruismo, della solidarietà; capacità di scegliere la non violenza, anche quando intorno a me questa degenera.
Queste e infinite altre occasioni di riflessione offre agli adulti la questione dell’antisemitismo in generale; e non certo solo il 27 gennaio, ma piuttosto lungo un percorso articolato, costante, consapevole e finalizzato, che sappia, per ogni anno e per ogni età e contesto, cogliere gli aspetti che più è importante sviluppare e affrontare, anche con i ragazzi più grandi. Tra di loro si verifica spesso il secondo effetto che la letteratura in merito denuncia: il pericolo di assuefazione e saturazione: “Non ne posso più di sentirne parlare”… Ma se per alcuni è così, non sono loro a dover essere colpevolizzati. Non sono indifferenti o insensibili loro; forse, piuttosto, sterile o da ripensare il nostro modo di portare questa tematica nei nostri giorni.
Ho riascoltato vari interventi nei quali, in questi anni, la senatrice Liliana Segre -oggi ancora più vicina alla nostra città!- ha parlato con i ragazzi. Provo a trascrivere, più o meno testualmente, alcuni passaggi di uno di questi confronti. I bambini devono giocare e devono conoscere il più tardi possibile che altri uomini, uguali a quelli che hanno ucciso e hanno perseguitato fino alla morte, non erano pazzi ma erano uomini e donne come tutti.
I messaggi che lancia sono concentrati sui valori, posti in positivo e sempre validi, specie per i giovani: su quel binario e in ogni luogo, per non dimenticare, inciderei la parola INDIFFERENZA! É questa la vera colpa da non perdonare mai: pensare, in ogni circostanza, in ogni tempo, che si possa girare la faccia dall’altra parte perché quel che sta accadendo di brutto ad altri, possa non riguardare noi.
Sottolinea l’importanza, nelle difficoltà, dell’amicizia profonda, non quella da vetrine televisive o social. Fa tremare quando racconta del momento in cui, pur potendolo fare, sceglie di non sparare sul suo carnefice, ormai sconfitto, perché capisce che lei non è, non vuole essere come loro: la violenza non è mai la soluzione, neanche quando la si è subita nelle forme più aberranti. Da allora è davvero una persona libera!
Ed è potente la sua voce quando ripete, più e più volte, voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere. Lo voleva allora, LI’. Lo vuole ogni giorno. Perché la vita è fantastica, meravigliosa ed è un bene così prezioso, irrinunciabile, con il quale non si può giocare per una corsa in autostrada o un momento di sballo al sabato sera. Perché dal dolore si impara ad amarla ancora di più questa nostra esistenza; ma occorre essere forti, sapere di essere artefici della nostra vita, senza mai incolpare gli altri, senza delegare nessuno, perché sta a noi prendercene cura ed essere più forti dell’avversità. Sempre!
Ecco, questo sì che è un modo vitale, forte, vibrante e costruttivo di parlare della Shoah! Grazie, Liliana!