Tra stupore d’infanzia e bisogno di palingenesi
Del bisogno, individuale e collettivo, del Natale, per azzerare il conto e rifocalizzare lo sguardo
Non ricordo il mio primo Natale, né il secondo, né il terzo e probabilmente poco anche quelli che seguirono; ma ricordo bene quello stupore d’infanzia (Negri), quella gioia, intima, in sé perfetta, completa come poche, dell’essere accompagnata da una mano più grande della mia davanti all’albero: con le sue lucine intermittenti, nella semioscurità, costruiva sulle pareti d’intorno trame inenarrabili di avventure miracolose, mentre intanto coi rami accarezzava quel piccolo pacco in più che ogni giorno spuntava sotto la sua chioma, generato, quasi, dalla terra; poi, davanti al presepe, ginocchia al pavimento per osservarlo così, da dentro. Per ore, a guardare quella pace nella finzione e nel silenzio/ delle figure di legno che vi riconobbe Quasimodo.
Ancora oggi così. Che impressione di verità le pecorelle presepiali! Con bianca pelliccia ondulata, musi stretti e proverbiale mitezza, nell’equilibrio instabile delle quattro esili zampe, quelle piccoline, incaricate di rappresentare la prospettiva, accompagnano il loro pastore tra i salti dei boschi nei pascoli più lontani; quelle grandi, prescelte per il primo piano, lo seguono, grate, al ritorno nei pressi della santa grotta.
Simbolismo e realismo accostati, albero e presepe, per un unico messaggio che parla parole di calore, candore. Una nenia che sussurra all’anima: son qui. Conforto, balsamo. Forse il bene invocato oggi m’aspetta./ Una serenità quasi perfetta/ calma i battiti ardenti del mio cuore. Come per Saba, così per noi. Una porta, attesa quanto inaspettata, torna ad aprirsi sui chilometri di asfalto che per un anno hanno inghiottito le nostre vite.
Abbiamo bisogno del Natale! Credenti o meno, che la fede nell’Oltre, nell’Altro accompagni i nostri gesti, o che pensiamo tutto si muova in una dimensione orizzontale di sola umanità, in ogni caso, abbiamo bisogno del Natale. Credo sia una necessità antropologica che l’individuo e le comunità hanno per inserire periodicamente una cesura forte, netta, collettiva, sincronica, riflessiva, nell’ininterrotto scorrere dei giorni in cui avvoltoliamo queste ansiose rincorse quotidiane.
Nascere. Tornare a nascere ogni anno, nel silenzio attonito di quei pochi attimi, è una palingenesi universale e al contempo tutta squisitamente individuale. É avere, ancora e poi ancora, quella nuova opportunità per azzerare il conto sui nostri errori, sulle nostre debolezze, sulle continue distrazioni, e tornare a rifocalizzare il pensiero alla ricerca di un senso del nostro fare; del nostro essere; del nostro esserci. É come se, per dirla con Wadsworth, pur tra i dolori di un mondo malato, con quei rintocchi e con quel canto, il mondo tornasse dalla notte al giorno, riscoprisse una nuova alba fatta di speranze che ripartono, ma anche di impegno; perché ogni voce, ogni melodia, ogni canto sublime che si eleva suggella un nuovo patto di buona volontà per gli uomini.
Opportunità nuova; speranza che si rigenera; impegno con noi stessi e col nostro piccolo mondo. Questo il Natale forse.
Certo, Madre Teresa di Calcutta suggerisce l’idea di un Natale diffuso, quotidiano, disciolto in ogni attimo, vivo in ogni gesto di cura, di ascolto, di ricerca della giustizia, di solidarietà, di umiltà. Non so quanto ne siamo capaci, ma i grandi uomini e le grandi donne che hanno attraversato la storia valgono a segnare la strada: fari per le navigazioni più incerte, presepi viventi che custodiscono in sé il senso e il segno.
In copertina: Palingenesi. Giò Cascone