NUGAE - Nessuno si salva da solo… o forse sì?
Un percorso attraverso il dolore, la speranza e la luce tentando i passi di una lettura psicanalitica di Dante
Io non lo so se nessuno si salva da solo, come titola la Mazzantini, o se invece è il contrario.
So solo che, da bambina prima e poi da mamma, non ho mai amato troppo le favole costruite sul topos della fanciulla (ma varrebbe lo stesso per il ragazzo) che, infelice, attende l’arrivo del suo principe perché venga a salvarla. Allora pensavo, e ora a dico ai miei figli, che, sì, nei momenti di difficoltà può essere molto importante l’intervento di qualcuno che possa tirarci su; ma, poi, ognuno deve fare il possibile per salvarsi da solo. Oggi, fra me e me, mi ripeto pure, e spesso, che ogni amore che nasca per risolvere una nostra mancanza, una ferita, un vuoto, è forse basato su fondamenta scivolose: non voglio averti/ per riempire i vuoti in me/ voglio essere piena già di mio/ voglio essere così completa/ da poter illuminare una città intera/ e dopo/ voglio averti. Così la poetessa indiana Rupi Kaur. Grande! Anche questo vorrò dire ai miei figli. Magari impareremo insieme la poesia intera. Ma a giusto tempo.
Se Amleto, scosso dalle precipitose seconde nozze della madre vedova, sentenzia sulla fragilità femminile, più realisticamente (non me ne voglia il principe di Danimarca!) credo che la fragilità appartenga davvero a noi tutti: uomini, donne; adulti, bambini; moderni, antichi. A cambiare immagino siano le cause, l’intensità, la capacità di riconoscerla, decodificarla, affrontarla. Sì, perché spesso è difficile innanzitutto riconoscerla la nostra fragilità, sia nel senso del saperla vedere, che del darle diritto d’asilo. Barricati dentro sovrastrutture sociali legate a falsi modelli educativo-emotivi, sono tanti quelli che si trincerano in faticose maschere da persone tutte d’un pezzo, senza paure e cadute. Intransigenza, severità eccessiva, intolleranza, arroganza, scarsa empatia non sono spesso sintomi di questo non riconoscersi fallibili?
Ma ciò che non ammettiamo non possiamo analizzarlo; quindi, neanche guarirlo.
Pericolosamente innamorata del filone della critica psicanalitica applicata alla letteratura, mi avventuro spesso lungo piste più o meno battute di questo percorso, trovando che, seppure, a volte, possano condurre lontano dalle intenzioni dell’autore, tuttavia aprono una via profonda per sentire universalmente nostre parole, accenti, versi e immagini di ogni epoca. Immaginare, interpretare è la parte più creativa del leggere.
Così torno al nostro Dante, al suo smarrirsi in quel buio che è della mente, del saper scegliere il meglio; che è della volontà. Che è della vita. La nostra anche. Penso alla sua capacità, figurativa e concettuale, di estrapolare le cose che più ci rendono faticoso, impervio il cammino verso la luce: un appagamento materiale dei desideri del corpo vissuto con smania e superficialità, senza sentimento, rispetto, cura di sé e dell’altro/a; quel presumere di sé, vestirsi di quella superbia che allontana dagli altri, dalla possibilità di sentirsi umili e simili, di farsi piccoli per compiere cose grandi; quell’attaccamento inconsapevole, smodato al benessere materiale, all’accumulo iniquo, al consumismo, al sempre di più e nuovo, che forse, più ancora del resto (così la lupa!) rende pesante il nostro procedere e ci precipita verso uno stile di vita che, mentre delega la felicità alla capacità di acquistare e possedere, intanto ci allontana da essa. Dalla serenità interiore.
La salita immediata è negata: pensare di puntare subito ai cambiamenti netti, ignorare il percorso, non si può. Non è sano. Occorre retrocedere fino a conoscere la dimensione più bassa del male, fino a toccare il fondo e attraversarlo; solo dopo, dopo lacrime e buio, sarà possibile risalire, con speranza e consapevolezza, verso nuove mete, verso la luce, muniti di una forza sempre maggiore, di capacità sempre rinvigorite; e questo avviene nel segno della sottrazione, mai della somma; della cancellazione e dell’alleggerirsi, fino a saper abbattere le pareti del’io, immergersi con fiducia nei fiumi della vita, per poi superare noi stessi, i nostri limiti, fin dove il nostro ego saprà fondersi in una dimensione di benessere collettivo e appagante, in cui gli altri, il mondo collaboreranno al nostro disegno di gioia, perché noi non saremo più d’ostacolo.
Questo il viaggio. Queste le tappe, di cui i più riconosceranno le forme. Della sintesi ossuta e dell’approccio informale, vi chiedo venia.
Capire se Dante, se l’uomo che egli rappresenta, si salvi da solo o grazie ad altri, è anche questa conseguenza del nostro approccio interpretativo. Metterò da parte quello prettamente religioso per tentarne, solo per cenni, due.
Il primo, narrativo, romanzato, ha personaggi esterni chiamati in veste d’aiutanti dell’eroe, che dispiegano la loro azione sulle pagine del libro della nostra vita (per usare una metafora cara al nostro); figure chiave, che -noi consapevoli o meno- ci accompagnano e supportano. Dante suggerisce che siano donne. Non mi stupisce. Non sarà che ognuno di noi ha tre figure femminili poste a salvare la nostra vita? Una ci guarda costantemente, ci affianca in silenzio, e, con amore gratuito, previene ogni nostra richiesta; non aspetta parole, ma sa ed interviene quando serve, sebbene nell’ombra, dietro le quinte; ella muove verso di noi chi saprà illuminarci il cammino, chi, riconoscente della nostra fiducia devota, costante, andrà a cercare aiuto e lo farà dove ci sarà chi saprà operare, intervenire in nostro favore, perché di noi ha contezza piena, ci conosce dal vivo, sa cosa ci fa bene. E Beatrice, infatti, sa che Dante sarà smosso, scosso e ascolterà chi per lui è stato maestro e guida intellettuale, culturale, etica. Chiamato ad intervenire, Virgilio non è un suo pari, infatti, ma è l’adulto, il duce che segnato egli stesso da fragilità, saprà condurre l’uomo attraverso le prime fasi di quel cammino impegnativo e duro. Può farci da guida solo chi riuscirà a scuoterci dagli ultimi rigurgiti di vigliaccheria e vorrà camminarci accanto nella sofferenza, sorreggerci con lo sguardo, ma, soprattutto, con la parola.
Ho superato il limite delle battute e della pazienza vostra. Ma, per onorar l’impegno, accenno appena alla seconda interpretazione. Assolutamente opinabile, ma per me affascinante. Dante, in realtà, è anche e coraggiosamente, l’uomo che si salva da solo. Che fa appello ad ogni sua forza interiore e strumento in suo potere per salvarsi. Riabilitarsi. Ha paura, sente la tentazione della rinuncia, ma a riscuotersi dalla sua viltà opera attraverso tre istanze: decide di volersi bene, perdonandosi e concedendosi il percorso verso la salvezza; cerca e attende l’illuminazione, che imparerà a riconoscere quando giungerà ad indicargli il cammino; e poi interverrà, opererà, agirà per la sua salvezza. E lo farà ricorrendo alla guida di ciò in cui lui ha maggiormente investito, pur in tutte le sue traversie: la sua cultura, la sua essenza di uomo reso nobile dalla ragione, dal logos che coraggiosamente indaga, analizza, prova a ricordare e, poi -pur nei limiti che sa- a rendere questa avventura dell’animo suo parabola umana, parola scritta, segno tangibile e imperituro. In principio esule da sé, ha finalmente trovato la sua vera patria.
(In foto William Blake, Inferno)