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NUGAE - Da quel giorno volli, e volli sempre e fortissimamente volli

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È una mattinata grigia e piovosa, mi rincuccio al caldo delle coperte, ancora per nulla sazia della dolcezza del sonno quando la sveglia suona. La cerco, la tasto, la spengo, per non disturbare il riposo di chi può, e nella semioscurità, tra un inciampo e l’altro, ondeggio nel breve tratto di corridoio, lacerata tra le sirene di Morfeo, che attirano, cantano, incantano, e  il ricordo -a quell’ora assai confuso, in verità- delle ragioni che mi hanno fatto impostare presto quella sveglia che ha offeso la quiete delle stanze pochi minuti fa.

E mentre divengo io stessa terreno vivo di battaglia tra debolezza, pigrizia e akrasìa su un fronte, incertamente contrastato da forza, determinazione e dominio di me, mi vengono a trovare due amici che conducono la mia mano ad aprire la porta verso lo studiolo e una migliore stima di me.

Non ce la faccio, però, ad indossare, come il buon Niccolò, panni reali e curiali, ma, in sua compagnia, metto prima su la moka per un caffè e mi accingo ad entrare nelle antique corti dove, davvero, quegli amici antichi sembrano ricevere amorevolmente chi voglia pascersi del loro cibo ed ascoltarli e parlar con loro di quelle tante cose che furon di ieri, son d’oggi e forse, io credo, saranno anche e sempre di domani.

Nello studio, di fianco alla cucina, ci sono il piemontese Vittorio, che Alfieri fa di cognome, e Lucio Annea, quel Seneca che venne di Spagna a Roma nel tempo degli imperatori capricciosi e temibili.

Dialogano fra loro ed io li ascolto, certa che, se sono venuti a trovarmi, avranno qualcosa da dirmi.

Da quello che sento, arrestandomi sulla soglia, Vittorio racconta dell’inquietudine che lo assale spesso, di come, pur giovane aristocratico e con mille possibilità, si senta in preda ad una continua insoddisfazione, alla ricerca della sua strada, di una sua realizzazione. Ha viaggiato tanto e ha conosciuto, viaggiando, tanto e tanti, anche cose di sé che non immaginava gli appartenessero. Ma alla fine, in ogni luogo, sotto ogni cielo, un’agitazione gli riempie il cuore.  

-Non soffri per una tempesta, amico mio, ma per la nausea.

-Nausea? Sì, nausea forse se con questa intendi quel fastidio che ingombra l’animo, quel pungolo fastidioso e sempre vivo, che conosce bene chi si chiede quale sia il suo posto nel mondo, cosa essere per il mondo, mentre sente dentro una forza ciclopica che non accetta limiti, innanzitutto per sé.

-Tu mi ricordi il mio giovane Sereno, Vittorio caro. Quel che provi e senti è tipico del “sibi displicere”.

Vittorio di scatto alza le mani al cielo.

-Maestro caro calmati, sappi che io son cresciuto asino, fra gli asini e sotto un asino e poco so di latino e forse anche della bella lingua mia.

Seneca sorride. Mi sembra divertito e paziente.

-Diciamo che è uno stato di noia, se vuoi; o forse meglio un tedio che, come dicevi tu, ti punge e non ti lascia mai l’animo quieto. Insomma, provi un profondo malessere interiore; sei scontento di te, ecco.

-Già.

- Credo che tu senta dentro un desiderio di grandezza, ti agita una bramosìa confusa che non sai ancora  decifrare e certo sempre ti tiene lontano dalla serenità dell’animo.

-Serenità? Non credo di averla incontrata mai costei! Comunque sì, è proprio come tu dici: bramo ogni giorno cose diverse: un giorno mi vedo grande in armi, un altro esploratore di ogni mondo lontano, un altro in politica a contrastare i tiranni, tanti altri ancora mi perdo in passioni amorose… ma poi sento che la vita è breve ed io non so ancora chi sono e perché sono e, su tutto, temo di scivolar via senza lasciare traccia.  

-Breve? La vita dici? Mi permetti di correggerti? Non è la vita ad essere breve, ma noi a renderla tale. Vedi, parte del nostro tempo ci è strappato via apertamente, parte sottratta quasi senza che noi ce ne accorgiamo e una gran parte scorre via così. Ma lo spreco più vergognoso è quello che avviene per trascuratezza. E se vorrai farci attenzione, gran parte della vita scorre via nel far male, la massima parte nel non far nulla, tutta la vita nel fare altro.

-Altro? Altro da cosa?

-Da quello che senti davvero fare bene a te. Cosa vuoi essere, Vittorio?

-Ma è proprio questo che non so.

-Pensa allora ad una volta in cui ti sei sentito davvero vicino alla felicità. Soddisfatto di te e più ricco.

-Forse, ora che ci penso… non troppo tempo fa, mentre assistevo un’amica (in verità amante) malata e stavo assai spesso al suo capezzale, mi venne così, d’istinto, di buttar giù un testo teatrale. Era una tragedia che parlava di Cleopatra, di lei e della passione di Antonio per lei.

-Bene, e te ne sei sentito soddisfatto?

-Soddisfatto io proprio no, ma, se mi chiedi se ebbe successo, sì. La portammo in teatro, a Torino, e il pubblico applaudì. E come! Sai, d’altronde di teatro qui in Italia ce n’è poco oramai. Ma quell’esperienza, pur consapevole dei mille limiti della mia scrittura e della mia cultura, mi fece sentire bene.

-Ottimo! E allora?

-Allora cosa?

- Non pensi che possa essere un indizio? Che possa essere quella la tua strada? Coltivala, Vittorio, cura la tua naturale inclinazione a scrivere, a verseggiare. Fallo come tu vuoi, ma fallo e non dirti mai che è il tempo a non bastare. Hai talento, lo so, lo sento, ma quello da solo non basta mai. È la determinazione che devi raggiungere e imparare il controllo del tuo tempo.

-Ma sì! Vero… scrittore, autore tragico! Come te, Lucio! Forse è davvero così. Forse la cura alla mia noia, a questo tedio che mi suscita ogni cosa, misto ai miei bollori di gioventù e al mio desiderio di gloria è proprio questa! Questo il modo per impegnarmi in attività più confacenti alla mia inclinazione!

-Pensi di farcela, Vittorio?

-Mi esaltano le sfide titaniche e, se pure so quanto duro studio mi tocchi affrontare per questa impresa, sento che da oggi in poi voglio. E voglio ancora. Fortissimamente voglio.

La moka fischia, un aroma intenso e accogliente satura l’aria. Accosto l’uscio, lascio gli amici alle ultime battute e sorseggio il mio caffè, amaro sulle prime rughe del palato, ma rinvigorente, rinsaldante nel suo scendere giù.

*Nota dell’autore: Il testo contiene libere citazioni e riadattamenti di alcuni passi degli autori in questione.

Alessandra Mazzei
Autore: Alessandra Mazzei

Diploma classico, laurea in Lettere classiche a La Sapienza, Master in Pedagogia, insegue una non facile conciliazione tra bios theoretikos e practikos, dimensione riflessiva e solitaria, e progettualità concreta e socialmente condivisa. Docente di Italiano e Latino, già Assessore alla Cultura e Turismo di Rossano, impegnata in diverse associazioni socio-culturali, ma, prima e più di ogni altra cosa, mamma, felice, di Chiara Stella, Gabriele e Sara Genise. Ha grande fiducia nelle capacità dei giovani, degli studenti, di quelli che poi restano e di quelli che vanno pensando un giorno di tornare. Spera di poter contribuire, insieme a loro e ad amici ottimisti, alla valorizzazione di questa terra di cui sente da sempre la forza delle radici, accanto al bisogno di paesaggi culturali ampi e aperti. Ama la scrittura, che vive, al pari dell’insegnamento, come itinerario di ricerca e crescita personale, da coltivare in forme individuali e collettive.