Dei “diritti” e delle pene: la negazione della cura tra dis-interesse e privatizzazioni
Un sistema sanitario in bilico: la lenta erosione del Diritto alla salute nelle disuguaglianze Regionali
La pandemia causata dal Covid-19 ci ha messo di fronte alla «tirannia» del diritto alla salute. Un diritto che, difronte al pericolo incontrollato e imminente del contagio, è riuscito a mostrare la sua reale supremazia relegando in un angolo tutta il complesso di norme e prerogative che regolavano il vivere comune.
Da allora innumerevoli sono state le riflessioni sulla pertinenza delle misure adottate e sull’inadeguatezza del sistema sanitario – che ne è uscito sconfitto insieme al mito indiscusso della scienza - pagando lo scotto degli anni in cui si è programmato assecondando la amara legge del bilancio, aprendo le porte agli interessi dei privati.
Ma fino a che punto ci si può spingere nella soddisfazione del proprio interesse quando è in gioco la tutela della salute della collettività e dei singoli che la compongono?
Da anni il processo di privatizzazione in atto del sistema sanitario nazionale e, con esso, il principio che lo incoraggia e che garantisce la libertà d’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), sta mettendo seriamente in discussione e a dura prova il principio costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), limitando il libero accesso alle cure mediche a molti cittadini. Se da un lato può apparire legittimo che un attore economico – anche se agisce nell’ambito sanitario – persegua il proprio interesse inseguendo la logica del profitto, ad una analisi più attenta – e neanche troppo approfondita – ci si si rende conto che i due principi costituzionali non hanno affatto il medesimo peso e non possono in alcun modo essere trattati in maniera paritaria.
Il diritto alla salute, infatti, rientra tra i diritti «fondamentali» dell’individuo – e, si badi bene, non del cittadino poiché è garantito a chiunque si trovi in uno stato di bisogno – proprio in virtù di quel principio secondo il quale la tutela della salute risulta intimamente legata al prolungamento e al sostentamento della vita, che è la base su cui, inevitabilmente, poggiano tutti gli altri diritti. Al contrario, il diritto alla libertà d’iniziativa economica privata ha un valore completamente diverso e prevede già di per sé una limitazione che ne condiziona l’esercizio. Come recita l’articolo 41 della Costituzione, la libertà d’iniziativa privata «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» e affida alla legge il compito di «determina[re] i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali».
Interrogarsi allora sull’opportunità di questa pratica che sta erodendo, pezzo per pezzo, il Sistema Sanitario appare inutile perché, seppur legittima, esse è costretta a muoversi nei limiti che la costituzione le impone. Ma le azioni messe in campo in questi anni stanno davvero tutelando il nostro diritto alla salute e vigilando sull’espansione indiscriminata del privato?
Pare proprio di no. È indubbio che negli anni il diritto alla salute si sia indebolito molto, nonostante esso si contraddistingua per almeno quattro caratteristiche essenziali tese a preservarne il pieno godimento: la fondamentalità, la doverosità dell’attuazione, l’universalità e l’essere assicurato, almeno nei suoi livelli essenziali, in modo uguale e uniforme su tutto il territorio nazionale. In teoria.
Nei fatti però ci si scontra quotidianamente con le interminabili liste d’attesa, con l’inefficienza dei servizi erogati, con la mancanza di strutture idonee e confortevoli, con gli innumerevoli errori diagnostici, con l’assenza di personale specializzato. Ad inserirsi in questo contesto le strutture private che continuano a spadroneggiare nel vuoto creato dal sistema pubblico.
A farne le spese, come sempre, sono le fasce meno abbienti che attendono o rimandano visite, controlli ed interventi facendo crollare la media sull’aspettativa di vita in buona salute, nelle regioni del sud, di 4 anni.
Se poi la salute, che non si riduce alla sola assenza di malattia, viene considerata come la risultante di un benessere complessivo che coinvolge anche la dimensione psichica ecco che allora pochi individui potranno dirsi davvero in salute.
Ad aggravare l’accesso ai servizi sanitari nei nostri territori è sicuramente la condizione di svantaggio che vivono le regioni del sud. Il punto merita attenzione non solo per le differenze nei livelli di tutela che attualmente il sistema sanitario nazionale incostituzionalmente fornisce ai cittadini a seconda delle zone del Paese in cui vivono, ma anche – e forse soprattutto – per i progetti di autonomia regionale differenziata, perseguiti dal Veneto, dalla Lombardia e dall’Emilia-Romagna.
E allora cosa fare? Liberarsi una volta per tutte dalla morsa sfiancante della dialettica servo-padrone che continua a renderci schiavi. Sottrarsi all’idea di inferiorità e restituirsi a sé stessi imparando a chiede e pretendere quanto ci spetta. La salute non aspetta.