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«Cambiare tutto perché nulla cambi»: il dilemma di una fusione apparente

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«Cambiare tutto perché nulla cambi», diceva Tancredi nel celebre romanzo "Il Gattopardo". In quella circostanza si faceva riferimento al cambiamento apparente che mantiene inalterate le strutture di potere. Nel nostro caso, invece, potremmo invocare il concetto per definire  un cambiamento esteriore che serve solo a preservare lo status quo, impedendo una vera e propria trasformazione. È il caso della fusione dei comuni di Corigliano e Rossano.

I fatti delle ultime settimane – dalla consegna della Bandiera Blu alla recrudescenza dei fenomeni criminali, fino alla cronaca dei disagi nelle zone interne - ci hanno messo, nuovamente, difronte ad uno dei tratti che più caratterizza la nostra città: l’incapacità di pensarsi unica. Unica non nel senso di speciale (su questo, credo, siamo tutti d’accordo!) ma di unita.

Anche questa volta, l’ondata di opinioni sugli episodi che hanno segnato la città nei giorni appena trascorsi sono stati un’occasione per esasperare il dualismo, oltre che le criticità presenti, e sottolineare le “incolmabili” disparità tra i due centri urbani.

L’intera comunità di Corigliano-Rossano, insomma, continua a fare i conti con questa divisione interna post-fusione che crea frizioni e non rende possibile la costruzione di un percorso condiviso che vada oltre i particolarismi e le evidenti, ma non insormontabili, diversità.

Il problema principale sembra essere proprio questa inerzia nel superare la contraddizione che pure esiste tra il suo essere una realtà composita, frammentata, con due aree urbane profondamente diverse per storia e temperamento, e la possibilità reale di dare vita ad un progetto nuovo che tenga conto di tutta la complessità. Una contraddizione vera, quindi, che però non dice assolutamente nulla di definitivo sulla possibilità che esista una strada alternativa percorribile.

Eppure, la fusione non sembrava un errore. Appariva, al contrario, un passo necessario, utile a risollevare le sorti di un territorio morente. Un atto di responsabilità, di visione, di coraggio. Ma come ogni atto fondativo, ha bisogno di tempo per diventare una fatto concreto, reale. E ha bisogno, soprattutto, che in molti ci credano.

La verità è che la fusione di due comuni rappresenta un atto amministrativo dirompente, oltre che una vera e propria scommessa. Tuttavia, quando si va oltre il dato tecnico e ci si imbatte in quello umano, spesso più profondo e trascurato, emergono le difficoltà di una comunità che fatica a riconoscersi come “una” sola realtà, dopo essersi a lungo identificata in due storie, due tradizioni, due identità.

Questa incapacità di pensarsi uniti è il segno di una ferita simbolica mai sanata: è la disillusione di un popolo che non ha conosciuto il riscatto. E di questo dobbiamo tenerne conto. Le comunità non si fondono a tavolino. Le persone non si “uniscono” con atti normativi. La memoria collettiva, i riti, le abitudini e persino i nomi delle strade o le squadre di calcio locali portano l’impronta di una storia che non si cancella.

Per questo motivo è necessario prendere coscienza del fatto che il sentimento di appartenenza a cui aspiriamo è qualcosa di lento, che si nutre di esperienze condivise, si consolida nel tempo. È un percorso che va accompagnato. Se la fusione avviene senza un autentico processo di partecipazione, senza ascolto, senza simboli nuovi capaci di onorare entrambe le origini e aprire spazi di riconoscimento reciproco, allora si finisce per convivere, più che vivere insieme. Due paesi uniti giuridicamente possono rimanere separati internamente, divisi da micro-conflitti, nostalgie, sospetti o semplicemente dall’indifferenza.

La sfida vera, allora, non sarà solo quella della gestione efficace (che pure dovrà essere garantita e che dobbiamo con forza pretendere), ma quella della ricostruzione di un immaginario comune. Servono tempo, pazienza ma soprattutto la volontà collettiva di narrare una storia nuova, che non rinneghi le radici ma le intrecci, le onori e le superi. Solo così una comunità potrà pensarsi, finalmente, parte di un disegno condiviso e unitario.

Per ora, la sensazione è che tutti continuiamo ad abitare questo grande paese che ci ostiniamo a chiamare “città”, ma che in fondo ci sta stretto come tutto quel poco che ci è rimasto.

Rita Rizzuti
Autore: Rita Rizzuti

Nata nel 1994, laureata in Scienze Filosofiche, ho studiato Editoria e Marketing Digitale. Amo leggere e tutto ciò che riguarda la parola e il linguaggio. Le profonde questioni umane mi affascinano e mi tormentano. Difendo sempre le mie idee.