Ciriaco De Mita: il politico, l’intellettuale che voleva portare il comunismo al Centro
Il corsivo di Tonio De Pascali ripercorre un'altra delle figure emblematiche della Prima Repubblica, scomparso due giorni fa: la sua cura maniacale della forma politica, la sua lotta intestina (e solitaria) a Bettino Craxi
Ciriaco De Mita se n'è andato due giorni addietro.
Anzitutto, il politico di Nusco è stato uno degli ultimi leoni, forse l'ultimo, di quella grande savana-palude che fu la Prima Repubblica italiana. Da ultimo gran leone va ricordato per la sua instancabile attività politica, iniziata nei primi anni Sessanta e terminata solo pochi giorni addietro. Sessanta anni di storia personale che si fondono e si confondono con la storia d'Italia.
Ciriaco De Mita è stato un politico controverso, uno dei "boss" di quella Democrazia Cristiana anch'essa protagonista indiscussa della Prima Repubblica. Per sessant'anni s'è mosso con disinvoltura nelle stanze della politica nazionale. Da politico navigato.
Ha sempre militato ed ha per lungo tempo rappresentato la Sinistra democristiana, quella, per intendersi, che dagli anni Sessanta in poi ha sempre flirtato con un Partito comunista che progressivamente andava sdoganandosi dall'Urss, in contrapposizione all'ala conservatrice del partito, che invece guardava al Partito socialista di Bettino Craxi. Con il segretario socialista, con il quale c'era un'avversione personale senza limiti, ha condiviso un decennio di lotte senza quartiere, lotte in gran parte vinte dal leader del Garofano, che fu Presidente del Consiglio per tre anni contro l'unico, controversissimo no del politico di Nusco. Che solo in parte si prese la rivincita perché a Craxi toccò la fuga in Tunisia ma neanche lui uscì indenne da Tangentopoli con diverse accuse e condanne.
Ciriaco De Mita era un democristiano. Per lui la politica, intesa come speculazione, arte fine a sé stessa, veniva prima della politica intesa invece come svolgimento di azioni e programmi per il Bene comune. Che veniva certamente prima ma che non dimenticava questo Bene.
De Mita, con Forlani ed Andreotti erano fatti così: la Cosa pubblica era solo l'agorà di scontri personali e di potere. La Dc di Fanfani e di Moro non esisteva più.
Ad una politica del progettare e del fare prediligeva la politica delle lotte senza quartiere tra le innumerevoli correnti della Balena Bianca. La strategia veniva prima del programma.
Del resto il Paese era già stato costruito e negli anni Ottanta bisognava solo gestire una ricchezza che cresceva come la "Milano da bere" dei Socialisti.
Già, gestione della ricchezza. Il politico avellinese fu per dieci anni al centro di polemiche, accuse, scandali a seguito della ricostruzione della Campania dopo il terremoto dell'Irpinia.
I politici italiani, soprattutto quelli democristiani della Campania, gestirono negli anni Ottanta migliaia di miliardi di lire per la ricostruzione e per gran parte di questi non s'è mai capito che fine abbiano fatto.
De Mita s'è detto, prediligeva la frequentazione coi comunisti. Per calcolo elettorale e per inclinazione culturale. Per inclinazione culturale, e lo s'è visto negli ultimi trenta anni, perché in teoria amava un partito "popolare" più vicino alle istanze "della classe popolare". Per calcolo elettorale perché, si diceva, dagli inizi degli anni Sessanta le correnti della Dc lottavano tra loro andando a costruire due colonne portanti: quella che amava parlare col Psi e quella che amava il Pci.
Lottare tra loro, per le correnti Dc, voleva dire scegliersi diversi alleati nell'agone politico del quale il partito era il Centro. Indiscusso. Ed in questo De Mita fu maestro. Un indiscusso protagonista della scienza del Potere.
Perché per lui la politica era appunto Potere e gestione di questo. Cui si sacrificava tutto. Tra continue crisi di Governo che duravano al massimo nove mesi.
Nessuno, insomma ricorderà De Mita per la storia della costruzione del Paese. Lo ricorderà, invece, per la storia della politica.
Perché il democristiano di Nusco era un politico fine ed intelligente. Con quell'accento irpino, spesso ai limiti della macchietta, spesso oggetto di satira, si ricordi il Bagaglino, si esprimeva in discorsi il più delle volte articolati e complessi che tanto ricordavano, per difficoltà di comprensione, l'eloquio di Aldo Moro.
Pensieri articolati. Che fecero sì che Gianni Agnelli lo descrisse come un "intellettuale della Magna Grecia". Una descrizione che suscitò ilarità ma che per i fini operatori della comunicazione politica col tempo si rivelò essere un appropriato complimento.
Negli anni in cui già si udivano le urla dei rudi guerrieri delle montagne della Lega Nord, lui, alle urla, contrapponeva fini ragionamenti. Quelli, appunto, che caratterizzavano la filosofia greca, o meglio, magno-greca. Perché poi, tutto, col senno del poi, si può dire di lui, meno che non fosse un signore del Sud con la fine intelligenza e una robusta cultura. Certo, l'apparenza era quella del provinciale del Sud, con un accento provincialissimo di chi non aveva mai avuto intenzione di frequentare un corso di dizione, ma bastava che si avventurasse nei discorsi che tutti poi cambiavano idea.
De Mita rappresentava come nessuno l'amore disinvolto per il Potere, la gestione di questo altrettanto disinvolta ma soprattutto quel concetto della politica come espressione indiscutibile della democrazia e della tolleranza intese entrambe sia nel partito sia nel rapporto con gli altri partiti e nella idea di nazione. Doti, del resto, indiscutibilmente democristiane.
Che mai nessun partito della storia dell'Occidente democratico e liberale potrà eguagliare.
Ecco, De Mita, fatte queste debite premesse, è stato un democristiano esemplare ed un politico discusso. Molto, moltissimo, discusso.
Ma ad avercene oggi.