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Noi siamo Rivoluzione... dalla filosofia all'essere politica e quotidianità

7 minuti di lettura

Spesso il reale significato dei termini si appalesa nascosto ai più. La prassi comunicativa prende il sopravvento e diamo per dimostrato ciò che è, invece, tutto da dimostrare.

L’esempio più significativo di quanto ora affermato è rappresentato proprio dal termine probabilmente più utilizzato – ed abusato – dalla fine degli anni Sessanta fino ai nostri giorni: Rivoluzione.

Cosa si intende per rivoluzione? Cosa riposa dietro questa parola dalla portata così gigantesca? Di quali contenuti essa si avvale?

Sono domande alle quali qui si prova ad offrire una risposta, con la consapevolezza che appare sfida improba scardinare convinzioni che il materialismo escatologico figlio del ‘68 ha innestato in molte coscienze, trasformate in cattive coscienze ed ancora impegnate a diffondere veleni senza costrutto.

Perché non esiste persona che non attribuisca al termine rivoluzione il significato teso ad un’attività volta a modificare radicalmente l’esistente. Ciò non è opinabile e dunque nemmeno contestabile.

Eppure, l’accezione originaria etimologica latina di tale termine voleva dire cosa radicalmente diversa dal significato che ha avuto il crisma della consuetudine. Infatti, il termine deriva dal verbo re-volvere: che sta a significare un moto che riporta al punto di partenza, ossia all’origine.

Strano destino, dunque, ha avuto questa parola, totalmente stravolta (e capovolta) nella sua accezione, un po' come è accaduto per i termini distanziamento sociale (che si è trovato ad avere significato positivo) ed assembramento (che si è trovato ad avere significato negativo) nella famigerata epoca pandemica, tanto difesa e voluta dalle cattive coscienze prima menzionate.

Non desidero nascondere il mio punto di vista che è, imprescindibilmente, quello di un uomo e un pensatore che si rifà ad una visione tradizionale ed organica dell’esistente e dunque ben lontano dalle rivoluzioni sovversive del 1789, del 1917 e del 1968. Questo va premesso e specificato per amore di obiettività e per dispiegare i passaggi che muovono il mio ragionamento con la coerenza aderente alla propria visione del mondo.

Nell’accennare alla prima rivoluzione cui ho fatto riferimento, la rivoluzione borghese, che tutti conosciamo come rivoluzione francese, abbiamo il primo esempio di come interi argomenti e periodi storici siano insegnati infarcendoli di ideologia e omettendo non solo fatti e situazioni, bensì addirittura motivazioni e collegamenti logici.

Ci è stata impartita la favoletta secondo la quale i cosiddetti rivoluzionari abbiano, a colpi di ghigliottina, scalzato gli scandalosi privilegi monarchici a favore del popolo affamato. Invece, la citata rivoluzione non ebbe come fonte d’innesco il popolo, bensì una precisa classe sociale: la borghesia.

Per comprendere il punto di vista di chi si muove nel solco della tradizione e di principi sacri ed immutabili occorre, però, resettare la considerazione della borghesia in senso marxista, ossia come proprietaria dei mezzi di produzione, e considerarla in senso spirituale come fonte degenerativa e oppositrice ad ogni valore trascendente. Per tali motivi, al fine di preparare il campo alla sovversione che ne sarebbe conseguita in Europa, la borghesia si frappose fra aristocrazia e popolo e ne distrusse ogni legame. Il popolo non stette a guardare e ne è la riprova il movimento della Vandea che cercò, con fede e passione, di opporsi alla sovversione, come racconta un famoso canto sanfedista: “spade della vandea, falci della boscaglia, baroni e contadini siam pronti alla battaglia; per vendicare chi morì sopra le ghigliottine, per riabbracciare il sole di Francia sulle nostre colline”.

Infatti, tale rivoluzione ha rappresentato l’inizio ufficiale (ma non per la storiografia ufficiale, mi si perdoni il gioco di parole), della nostra Europa. Forse molti si sorprenderanno nello scoprire che, perfino l’annosa questione del debito pubblico, nasce proprio da quella precipua vicenda storica.

Uno dei lasciti più dannosi della rivoluzione borghese fu, infatti, operare la tripartizione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) ma dimenticandosi del quarto e più importante potere: la sovranità monetaria; ossia il potere di uno Stato di emettere la propria moneta. In tal modo, questa importantissima e fondamentale funzione fu totalmente delegata all’organismo economico privato per eccellenza, la banca. Da qui si metterà in moto un perverso meccanismo di debito fittizio che, però, non posso spiegare in queste pagine perché andrei fuori argomento, limitandomi a riportare questa frase di uno dei padri del sionismo: “datemi il potere di emettere la moneta di uno Stato e non mi importerà di chi ne farà le leggi”.

Quindi, rivoluzione equivalente a sovversione, almeno per ciò che concerne la nostra storia europea. Il male va riconosciuto in tutte le forme e i gradi che esso presenta e seguendo questo ragionamento, allora la parola d’ordine potrebbe essere “controrivoluzione”. Purtroppo, però, le origini rivoluzionarie sono lontanissime e la sovversione insita nelle rivoluzioni prima citate si è radicata così profondamente che appare come qualcosa di scontato. Pertanto, inutile parlare anche di controrivoluzione, preferendo il termine reazione.

Mi rendo conto che utilizzare tale termine in una società figlia del ’68 e della nefasta mentalità sinistrorsa possa apparire quasi come una bestemmia. Ma occorre provare a sganciarsi dal pensiero unico dominante che non vuole scendere dal piedistallo che si è esso stesso costruito e ragionare in termini differenti.

Reazione, infatti, non è sinonimo di ingiustizia o infamia, bensì rappresenta proprio l’atto del reagire contro la decadenza. Seguendo, dunque, tale filo di pensieri, ecco che il termine reazione non è più il contrario di rivoluzione ma, se rammentiamo l’origine semantica di questo ultimo termine, menzionato ad inizio articolo, ossia tornare alle origini, ecco che essi appaiono, invece, collegati.

Dunque, l’unica forma di rivoluzione possibile, dal punto di vista politico e ideale, è rappresentata da quel tentativo di preservare (non utilizzo il termine conservare per evitare ulteriori equivoci) l’idea della tradizione. Laddove, si intende, tradizione non deve essere intesa come supino conformismo a ciò che è stato, ma qualcosa di metastorico e che sia allo stesso tempo dinamico.

Una forza, dunque, che agisce in continuità di spirito e di ispirazione, attraverso istituzioni, ordinamenti, leggi e costumi che possono anche presentare una notevole varietà e diversità.

Ma per una rivoluzione di siffatta natura, che volge lo sguardo verso la tradizione sacrale europea, occorrono uomini che abbiano capacità e volontà di deporre ogni scoria di individualismo e si considerino semplici segmenti.

Il segmento ha un inizio e una fine, ma nel suo breve percorso esso si fa testimonianza per poi trasferire ad altro segmento ciò che ha realizzato.

Occorre agire in maniera impersonale, essere ciò che Julius Evola definiva “convitati di pietra”. Occorre, in sostanza costruire la propria identità di miliziano per diventare uomo differenziato.

Eseguita questa difficile opera nel proprio foro interno allora, insieme ad altri uomini che hanno compiuto analoga opera, ci si potrà conformare ad una struttura organica nella quale ognuno sa ciò che ha da fare, con assoluto rispetto delle proprie capacità. Perché non tutti possono essere guida e capo e questo permette di spiegare un altro concetto.

Il capo (o la guida se la parola capo fa storcere il naso ai ben pensanti epigoni dell’egualitarismo massificato) non viene scelto dagli altri, ma da essi riconosciuto. Perché colui che non ha le caratteristiche di guida non può diventarla; mentre, invece, può benissimo accadere il contrario, ossia che vi sia qualcuno che ha tutte le caratteristiche adatte per guidare gli altri ma le contingenze storiche e politiche non consentono che possa esercitare tali prerogative.

Mi rendo conto di come questo concetto possa, di primo acchito, risultare impopolare, dunque mi permetto di “volgarizzarlo” con un esempio pratico. Chiunque di noi, facendo mente locale, potrà rammentare e riscontrare che nel proprio gruppo di amici, presente o passato, vi è o vi è stata sempre una persona la cui parola è o era più ascoltata rispetto a quella degli altri. C’è sempre una persona, tra gli altri, a cui preferiamo chieder consiglio quando abbiamo bisogno di una parola autorevole. Tutto ciò rappresenta l’esempio lampante di ciò che ho appena cercato di spiegare.

Esiste un nemico invisibile contro questa visione del mondo: l’invidia. Tutti noi ci portiamo dietro questo nefasto retaggio dell’illuminismo ed anche qui so di esprimere concetti scomodi e andare contro il pensiero unico. L’illuminismo viene considerato e inculcato come trionfo della ragione sull’oscurantismo e la superstizione. In realtà, la sanguinosa ragione dei lumi ci ha lasciato una eredità insita nel profondo di ciascuno di noi, per lo meno considerando le popolazioni del sol calante (occidente).

Nel merito, il livellamento imposto dall’illuminismo secondo il quale tutti siamo uguali (non nei diritti ma proprio ontologicamente) fa sì che, ogni qual volta questo assioma si scontra con la cruda realtà, ossia una persona che per meriti e capacità, partendo dallo stesso punto, fa meglio di noi, ecco che subentra l’ancestrale invidia: “perché mai quella persona ce l’ha fatta e io no?”.

Ecco, un altro passo della rivoluzione che guardi in alto verso le stelle e non giù verso il fango sta proprio nell’accantonare questo triste retaggio.

In conclusione, di fronte alla crescente ed ormai conclamata crisi dei valori superiori, morali e politici, che la comunità attraversa, occorre gettare le basi per la radicale costruzione di una realtà civile che è stata fatta a pezzi da una precisa volontà disgregatrice e dalla corrosiva azione del materialismo.

Esistono due strade possibili da imboccare: La prima strada porta alla resistenza attiva, tesa a fronteggiare nei fatti la dissoluzione e i suoi interpreti accoliti; la seconda strada porta alla resistenza passiva al fine di accompagnare e accelerare la distruzione del sistema in una spietata eutanasia.

A colui che aspira ad elevarsi al rango di uomo differenziato spetta la scelta su quale delle due strade imboccare, più confacente alla sua personale natura.

Passando al lato costruttivo, il fondamento costante di ogni vero Stato deve essere individuato nella trascendenza del suo principio, cioè del principio della sovranità, dell’autorità e della legittimità. Nel vero Stato si realizza la manifestazione e l’irruzione di un ordine superiore che si concretizza in un potere. Il vero Stato si differenzia da qualsiasi forma di associazione naturalistica o di diritto naturale, da ogni aggregazione determinata da fattori sociali ed economici, biologici o utilitaristici.

Lo Stato non è espressione della società; la società è la materia, mentre lo Stato è la forma.

La caratteristica essenziale dello Stato deve essere l’organicità. Uno Stato organico si compone di parti distinte e differenziate, ciascuna dotata di vita propria ma tutte ordinate gerarchicamente. Il suo principio è il classico “suum cuique tribuere”: ad ognuno il suo e ad ognuno il suo diritto, conformemente alla sua dignità naturale. Ne deriva una netta differenza tra Stato organico e Stato totalitario, perché il totalitarismo non rappresenta il carattere differenziato all’interno dello Stato, ma corrisponde ad un tipo livellatore, dispotico e meccanicistico.

Secondo la dottrina tradizionale la storia del mondo è composta di cicli e nell’attuale presente storico ci troviamo nel ciclo della decadenza, l’età del ferro, la Kali Yuga. Ecco, chi volesse conformarsi alle idee della tradizione attenderà con fiducia il nuovo avvento del ciclo iperboreo costituito dall’età dell’oro, la Satya Yuga.

di Francesco RUSSO

Redazione Eco dello Jonio
Autore: Redazione Eco dello Jonio

Ecodellojonio.it è un giornale on-line calabrese con sede a Corigliano-Rossano (Cs) appartenente al Gruppo editoriale Jonico e diretto da Marco Lefosse. La testata trova la sua genesi nel 2014 e nasce come settimanale free press. Negli anni a seguire muta spirito e carattere. L’Eco diventa più dinamico, si attesta come web journal, rimanendo ad oggi il punto di riferimento per le notizie della Sibaritide-Pollino.