Nel novantesimo anniversario del Premio Nobel, Placido rende omaggio al maestro Pirandello
Un film pienamente riuscito e convincente sulle “eterne visioni” dell’autore girgentino. Tanto di Pirandello e del suo tempo rivive, magistralmente amalgamato, nelle atmosfere e nelle dinamiche di questi 150 minuti di proiezione

CORIGLIANO-ROSSANO - Stazione, freddo, gente incappucciata, nebbia, sibili di freni, fumo di carbone, vapore per aria. Amburgo, 8 dicembre 1934.
Come in una sorta di omaggio a quei primi secondi della storia del cinema, quando i fratelli Lumière, nel 1896, portarono sul grande schermo pochi fotogrammi animati di una locomotiva che realisticamente si muoveva, nella stazione di La Ciotat, creando spavento tra le poltroncine del pubblico, così avviene che un imponente treno sbuffante, in un’atmosfera vintage, apra il sipario (sì, sipario!) dell’Eterno visionario: riuscitissima trasposizione cinematografica di un’opera teatrale dedicata da Michele Placido al “suo” Pirandello, autore principe dell’attore e regista siciliano, esordita sugli schermi in queste ultime settimane, in occasione del novantesimo anniversario della consegna del premio Nobel al maestro. È diretto a Stoccolma, infatti, quel treno, città dove, dal 1901, tradizionalmente il 10 dicembre (anniversario della morte dell’eponimo filantropo Alfred Bernhard Nobel), vengono consegnate le onorificenze del prestigioso premio dell’Accademia svedese; quel premio che nel 1934 toccò, appunto, a Luigi Pirandello.
Il drammaturgo siciliano, in verità, forse, ci aveva sperato già da prima, ma fu di ben otto anni preceduto - caso insolito e assolutamente degno di nota! - dalla scrittrice sarda Grazia Deledda, seconda donna al mondo a ricevere il Nobel per la letteratura e unica italiana; con l’autrice di Canne al vento, al nostro contemporanea, vari e ripetuti nel tempo furono i rapporti controversi. A dire il vero, questa conflittualità poco velata, riportata dalle cronache e sostanziata da produzioni ufficiali e da corrispondenze private, è uno degli aspetti che meno fa onore ad un Luigi Pirandello che verso questo talento femminile e verso “suo marito” (a cui alludeva addirittura il titolo del suo omonimo romanzo) diede prova di un poco gradevole animo maschilista, conservatore, forse invidioso.
Ma questo nel film non c’è e, pertanto, lo registriamo solo come curiosa postilla. La pellicola dell’Eterno visionario scorre dall’inizio fin quasi alla fine su quel treno, che del film, infatti, e della sua trama articolata su una complessa sovrapposizione di presente e passato, annoda e sviluppa i diversi piani temporali ed emotivi, che si incrociano e si scambiano tra i binari di quel freddo e ispirato viaggio invernale.
A metà tra silente flusso di coscienza e visioni oniriche, le scene della vita privata e artistica di Pirandello rivivono nella mente del personaggio protagonista, interpretato con magistrale intensità teatrale da Fabrizio Bentivoglio, e vengono, quindi, riproposte allo spettatore in un percorso della e nella memoria, che è costruito a flash: blocchi tematici ed emotivi che si avvicendano senza un’apparente logica razionale, la cui comprensione è, tuttavia, costantemente supportata da didascalie che danno le coordinate temporali e spaziali dell’evento rammentato.
L’arrivo di un telegramma, ricevuto con tormentosa mestizia per tramite dell’agente letterario (ruolo attoriale marginale ritagliatosi dal regista Michele Placido), comunica la non partecipazione di Marta Abba alla cerimonia di consegna di un premio che Pirandello sente appartenere a sé quanto a lei, indiscussa musa ispiratrice di tanta sua produzione e presenza femminile sconvolgente e rivitalizzante della sua travagliata vita sentimentale e intellettuale.
La prima apparizione della giovane e principiante attrice risale al 1925: Luigi Pirandello è il capocomico (la figura del regista si affermerà proprio con lui in queste prime esperienze) del Teatro degli Undici, o Teatro d’Arte di Roma, compagnia teatrale voluta da Stefano Landi - pseudonimo del figlio primogenito dello stesso Pirandello -, e Massimo Bontempelli con altri nove intellettuali del tempo. E proprio sulla scena di un’opera teatrale che Massimo Bontempelli aveva scritto su sollecitazione del maestro, Nostra Dea, si sta svolgendo il provino in cui una giovane ed inesperta attrice sveglia dal torpore Pirandello che, sconvolto, sale sul palco e si siede accanto a lei: “è come se la stessi aspettando da sempre!”. La femminilità ed espressività di Marta Abba - una splendida Federica Luna Vincenti, produttrice del film, nonché compagna di Placido e madre del suo ultimo figlio - è bouleversant, travolgente, scioccante per tutti e per lui in particolare, che confessa di provare da anni a scrivere di donne, ma di non essere mai riuscito a portare in scena quella femminilità così piena che ora si palesa ai suoi occhi. È l’inizio di un rapporto che segnerà la sua vita privata e artistica per anni, possedendone cuore e mente: “Marta, Marta, ma perché non ti ho inventata io!”; e altrove, “Marta mia, io non riuscirei a scrivere niente se perdessi l’immagine di te ispiratrice”. E tuttavia, mai questo legame così forte, platonico e intenso, si tramuterà in vera e propria relazione sentimentale dalla quale, pur con sforzi e intensità drammatica, lo scrittore si conterrà sempre: “Avrei voluto baciarti, ma non si può, non si deve!” dirà in un’incisiva scenda dello specchio; e tuttavia non mancheranno momenti di poetica, romantica bellezza, come la passeggiata tra le colonne dei templi di quella Girgenti ribattezzata Agrigento proprio in quegli anni da Mussolini. I tre figli non mancheranno di esplodere in una reazione di forte gelosia e preoccupazione per questo rapporto così intenso del padre verso la Abba: “Lei mi ha fatto rinascere come artista e come uomo!”, sarà la risposta decisa e sincera di Pirandello.
E da quali nebbie e ombre spesse dovesse rinascere l’animo dello scrittore lo sapevano bene sia lui che i suoi figli. Toccanti, magistrali, coinvolgenti, sconvolgenti a tratti le scene che raccontano di quella follia della moglie di Pirandello, Antonietta Portolano, annunciatasi dopo i primi anni di un matrimonio felice e desiderato, esplosa dopo l’allagamento della miniera di zolfo del 1903, esasperata dalla partenza in guerra del figlio Stefano nel 1915, fino a determinare i familiari al ricovero in una clinica psichiatrica nel 1918, da dove non uscirà più fino alla sua morte, nel 1959, tredici anni dopo il marito. Drammaticamente gelosa, finanche della figlia Lietta, di cui questo rapporto segnerà fortemente la vita; delirante nei suoi improvvisi attacchi paranoici; difficile da contenere nelle sue manifestazioni incontrollate; di una dolcezza straziante nei ritorni di nenie e comportamenti infantili, come quando, sussurrando, canta tra sé e sé “Piove, piove, la gatta fa le prove” ai nipotini che le guardano perplessi le scarpe una diversa dall’altra; affannata nei ricordi tremuli di una sensualità spenta e oramai solo tragicamente patetica; drammatica nell’improvvisa consapevolezza che non ci sia più spazio per lei a tavola con gli altri - “io starei con voi tutta la vita, ma dopo, dopo…ora torno in clinica” -: la personalità della Portolano rivive in maniera pienamente convincente, toccante, difficile da dimenticare nella recitazione matura di Valeria Bruni Tedeschi.
Tanto di Pirandello e del suo tempo rivive, magistralmente amalgamato, nelle atmosfere e nelle dinamiche di questi 150 minuti di proiezione davvero ben riuscita: le “visioni” dei suoi processi creativi, la costruzione in fieri della riforma teatrale e dei personaggi, i successi e insuccessi delle sue produzioni, i fantasmi dell’incidente della miniera e i sensi di colpa per le condizioni di quei lavoratori (le stesse denunciate nell’inchiesta di Franchetti e Sonnino che diede inizio alla questione meridionale), le aspettative e i rapporti altalenanti col Duce, la guerra, il ritorno dei reduci, l’entusiasmo spinto del ’29, l’approccio col mondo cinematografico tedesco prima e quello americano poi, e, in mezzo a tutto questo, le vite dei tre figli, tutte segnate dall’instabilità, eppure alla ricerca faticosa di un equilibrio e di una qualche normalità, in un confronto col padre che fu per ognuno di loro, ma in particolare per Stefano - scrittore anche lui - affettuoso, ma certo difficile da sostenere.
Il treno sbuffa, i freni fischiano, le porte si aprono e con esse il palcoscenico dell’elegante Accademia svedese dove Pirandello sarà consacrato, allora e per sempre, e, sopra ogni altra cosa, “per la sincerità umana” della sua scrittura. Una sincerità intensa e sentita, che, mentre scorrono i titoli di coda, resta addosso allo spettatore commosso e lascia senz’altro una traccia significativa nella storia del cinema d’autore.
fonte foto: style.corriere.it