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ARIE E RECITATIVI - Una bizzarra bizzarria

5 minuti di lettura

Una gentile amica che ama di cuore la poesia e i poeti e che, pur salutandomi poeta ogni qual volta m’incontri, non m’ama neanche un po’, da puntualissima lettrice dei miei elzeviri mi chiese, quasi brutalmente, di dedicarne uno alla più incongrua bizzarra tragica e buffa cosa cui mai mi fossi imbattuto nel corso pluridecennale delle mie letture. “Bada” ripeté inesorabile “che sia davvero incongrua bizzarra buffa e tragica!” Più non mi parla. Pretende l’elzeviro. Provo a farla contenta.

         Heinrich von Kleist era nato nell’Ottobre del 1777 da un’antica famiglia prussiana di tradizioni militari. Orfano di entrambi i genitori, tre furono le donne della sua vita: la fidanzata Wilhelmine, la sorella Ulrike, la cugina Marie. Ve ne sarà una quarta, ma di lei a suo luogo. Fu anch’egli ufficiale, e prese a odiare l’esercito; lavorò presso il ministero dell’economia, e si sentì estraneo al ruolo di burocrate. Tentò di arginare la marea d’ansia che montava da tali scissioni definendo un preciso programma esistenziale, auto ed etero pedagogico (ne voleva coinvolta anche la fidanzata) che, esemplato sullo studio delle Matematiche e delle Scienze Naturali, avrebbe dovuto fargli fiorire intorno e in cuore un giardino di felicità. L’impiego presso il ministero lo convinse che lo Stato si limita a servirsi della Scienza pei propri scopi, e la lettura di Kant, frettolosa ma intensa, gli levò ogni certezza sulla conoscibilità di ciò che per l’uomo veramente conta. Aver visitato Parigi fu aver visitato l’Inferno. Grottescamente grande, le sue fetide strade chiuse da case altissime imprigionano una massa di anonimi perennemente assetati di novità, mentre (è il Luglio 1801, e Kleist vi è appena giunto con la sorella Ulrike) ci si prepara a festeggiare una Rivoluzione ch’egli per certo non può amare. Bonaparte è e sarà uno dei suoi incubi. Pace gli daranno le piccole città tedesche. Felicità verrà dal vivere in un’isoletta d’un lago elvetico, con l’amata Wilhelmine, e dei soli frutti del loro lavoro agricolo. Conosciuto il progetto, l’amata lo lasciò. Fughe improvvise, periodi di buio mentale, l’idea di arruolarsi tra le fila del pur odiato Bonaparte solo per realizzare il desiderio di morire in battaglia, l’intento di assassinare Bonaparte stesso, sono le forme in cui la sua inquietudine si rapprese. Il tutto culminò con la decisione del consiglio di famiglia, che lo dichiarò “membro inutile all’umano consorzio”.

         L’inutile membro era stato valente giornalista. Insieme a cari amici, fondò e diresse infatti una rivista e, in seguito, un agilissimo giornale. Iniziale il successo di entrambi. La rivista fallì per dissidi interni, il giornale morrà strozzato dal governo prussiano. Kleist fu drammaturgo. Wieland definì degno di Eschilo, Sofocle e Shakespeare Il suo Robert Guiskard (non ne rimane che un frammento), laddove Thomas Mann avrà care le commedie, specie l’Amphitryon. Dei lavori teatrali di Kleist mai lessi una sillaba, mai vidi una scena. In attesa di giungere alla bizzarra bizzarria, dirò qui di due suoi racconti. Ne Il duello, ambientato nel basso Medio Evo nelle terre meridionali dell’Impero, incontriamo un duca proditoriamente assassinato dal suo fratellastro conte Jacopo, la virtuosissima dama Littegarda, a torto accusata dal conte Jacopo d’esser venuta meno alla sua vedovile virtù, e il valoroso cavaliere Federico, che affronta il giudizio di Dio incrociando le lame con Jacopo. È questi a prevalere: riceve infatti una banale scalfittura al polso, e infligge a Federico tre colpi che solo per prodigio non lo uccidono. Il giudizio di Dio ha deciso della colpevolezza di Federico. A lui e a Littegarda è destinato il rogo. Prodigio assai più grande vuole che le gravissime ferite di Federico guariscano in breve volgere di tempo, laddove la scalfittura al polso incancrenisce portando Jacopo all’orlo della fossa. La verità viene alla luce, nuda e bella, appena prima che sia data fiamma alla catasta destinata a bruciare i due innocenti: mai Littegarda era venuta meno al proprio onore, e a uccidere il duca era stato il fratellastro Jacopo. Le fiamme divoreranno il suo recente cancrenoso cadavere. C’era stato un momento in cui Littegarda e Federico, cui tutto testimoniava contro, erano stati creduti colpevoli perfino dai propri congiunti. Sapevano però di essere innocenti. Ebbero fede. Fu ciò a salvarli.

         Altro scenario, altro tono, ne Il trovatello. Antonio, attempato ma ancora vigoroso mediator di terreni, si reca da Roma in Sicilia con Paolo, suo figliolo undicenne. Lo ha avuto dalla prima consorte, di cui è rimasto vedovo. Si è poi risposato con Elvira, assai più giovane di lui: virtuosa malinconica ipersensibile. In Sicilia scoppia la pestilenza, e un bimbo contagiato, Nicolò, dichiarando il proprio male, bacia più volte la mano di Antonio chiedendogli aiuto. Paolo morrà di peste, Antonio ne uscirà illeso, Nicolò, causa della morte di Paolo, guarito, ne prenderà il posto nel cuore di Antonio, che lo porterà a Roma e gli farà da padre. Nicolò cresce, e si rivela sensuale (diventa amante della concubina d’un alto prelato), bigotto, avido, cinico. Si sposa, e spudoratamente tradisce la consorte. Questa muore, e lui è tra le braccia dell’amante. Tenta di sedurre Elvira, che ne morrà di dolore. Scaccia di casa Antonio, che gli aveva incautamente donato i propri beni. Antonio, in tribunale, non riesce a riottenerli. Schiaccia allora la testa a Nicolò, come si fa con una vipera. Condannato a morte, rifiuta fino all’ultimo di confessarsi per poter precipitare all’Inferno e sfogare in eterno il suo odio sull’anima dannata di Nicolò.

         Heinrich von Kleist corteggiava la Morte. Pretendeva però che qualcuno lo aiutasse a morire suicidandosi con lui. Tentò per mesi di convincere la cugina Marie. Si risentì del suo rifiuto. Trovò in Henriette Vogel, malata di cancro, un’anima disposta. Le sparò e si sparò. Fu nel Novembre 1811.

         Anni prima, aveva tentato di trascinare al duplice suicidio il fraterno amico Ernst von Pfuel. Al suo rifiuto imbestialì. L’amicizia si ruppe. Bene, la bizzarria che mi si chiese, una bizzarria pregna di buffa incongruità, non mi riesce di figurarla se non in questa scena, e a recitarla sono Totò e una delle sue vittime. Vedo Totò von Kleist che tenta di convincere Peppino von Pfuel, Fabrizi von Pfuel, Nino Taranto von Pfuel, Mario Castellani von Pfuel a ammazzarsi con lui. Lo sento dire: “Ammazziamoci assìeme: ci faremo quattro risate!” Ciò immaginai decenni addietro, quando lessi la cosa per la prima volta; ciò mi tornò in mente alla richiesta dell’amica; ciò propongo al lettore.

La morte volontaria è un pugno di bronzo sferrato dal singolo a chi lo attornia, e dall’Umanità tutta al Creatore. Con la pretesa che altri lo aiutasse a sopprimersi morendo con lui, Heinrich von Kleist lo declinò in un modo che mi sfugge. Era egli giunto a riconoscere alle marionette una grazia che negava a quella Umanità che gli pareva degradata a menzognero meccanismo. Anche Totò, talora, diventa marionetta – e non dirò più nulla.

In copertina Heinrich von Kleist

Ettore Marino
Autore: Ettore Marino

Lettore, se ne hai curiosità, sappi che Ettore Marino, arbërèsh di Vaccarizzo Albanese, è nato a Cosenza nel 1966; che ha collaborato e collabora con varie gazzette cartacee e digitali; che per Donzelli Editore è uscita, nel 2018, la sua "Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri"; che nel 2021 è diventata libro, per le Edizioni "ilfilorosso", una sua raccolta di liriche intitolata "Patibolo"; che nell’Aprile del 2022 ha pubblicato, per Rubbettino Editore, "Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi"; che ha scritto molte altre cose di cui va talora chiedendosi se resteranno sempre inedite; che è arcilieto di collaborare con L’Eco dello Jonio; che il Covid, di cui pure ha patito, non gli ha fatto dismettere l’uso del tabacco; che ignora quando e come morirà.