Diastole. Vittorino da Feltre
Un uomo e il suo generoso e riuscito esperimento pedagogico
Se sa di sé e si guarda allo specchio, il mondo si fa mondanità. Ma il mondo è mondo ovunque, e la retorica vissuta nel tugurio o all’osteria è meno consapevole ma non meno complessa o meno priva di pietà di quella coltivata in ambienti più eletti, e tutto penando si muove, e puoi chiamarlo Storia. Pure, all’occhio che lo ripercorre, il consumato moto degli umani eventi offre talora recessi d’ombra grata: il respiro diventa leggero, una stanchezza speranzosa prende a percorrere le membra, e sei più forte. Recessi di tal fatta assumono a volte un nome d’uomo. Qui il nome è Vittorino.
Venuto al mondo a Feltre, quasi per certo nel 1373, da antica famiglia impoverita, e bramosissimo di scienza, prese dimora a Padova, dove i corsi di studio erano gratuiti. Non lo erano i libri, però, ed egli, per procacciarsi di che vivere, prese a insegnare grammatica ai bimbi. Il latino, per lui, non aveva ovviamente misteri. Versato pure in matematica, filosofia, scienze della Natura e teologia, apprenderà il greco a Venezia, da Guarino Veronese, che per impossessarsene aveva soggiornato un lustro a Costantinopoli. A Venezia, Vittorino aprì la sua prima scuola. Poi ne aprì una a Padova, e un’altra di nuovo a Venezia. Era alle soglie dei cinquant’anni, quando un concorrere di cose gli consentì di diventare quel che i maniaci delle classifiche ebbero a chiamare “il primo educatore d’Europa”: primato che per certo gli avrà tracciato sulle labbra il sorriso mestissimo che le glorie mondane infliggono agli uomini di vera fede.
Il bellicoso Gianfrancesco Gonzaga è capitano del popolo di Mantova. Consorte sua è l’avveduta Paola Malatesta. La coppia cova un alto proposito: quello cioè di chiamare a Mantova chi possa farsi giusta guida dei rampolli di casa Gonzaga. Chiedono lume a Guarino Veronese, che non esita a fare il nome di Vittorino. Questi accetta, col chiaro patto che lo si lasci impostare ogni cosa a suo modo. Era un giorno del 1423, e tutto cominciò con un mutar di nome. Zoiosa (“Gioiosa”) era chiamata una villa di svaghi e voluttà. Vittorino la ribattezzerà Zocosa (“Giocosa”), la doterà di biblioteca, ne farà riaffrescare le pareti di ameni paesaggi in cui giocano bimbi e ragazzi. Sarà la sede degli studi e il luogo di soggiorno degli allievi. Ospiterà non solo i rampolli dei Gonzaga e di altri signori, ma anche ragazzi poverissimi. Le rette, proporzionate agli averi. Gli indigenti non pagavano nulla.
L’anima e il corpo; il mondo e il Cristo; il sapere codificato secondo le arti del trivio e del quadrivio, e i nuovi saperi che prendono forma, che premono; l’antichità come mito e modello, e le urgenze dell’ora... Se oggi il luogo della più acuta intensità mondana è il salotto, letterale, catodico o digitale che sia, mondo allo stato puro era allora la corte. Proprio presso una corte Vittorino riuscì a far fiorire un’oasi. Prosasticamente, e cioè per via analitica, tenteremo di uccellarne il perché: di contraggenio, giacché i prodigi chiedono che li si contempli in silenzio. Come che sia, la fiducia inconcussa che Gianfrancesco e Paola gli accordarono fu motivo di grande momento. Poi, ed è ciò che più conta, abilità magnanima di Vittorino fu quella di far incontrare e convivere tutte le coppie antinomiche sopra elencate (mondo e Cristo, anima e corpo, ecc.), non in un vile e peraltro inattuabile giusto mezzo, bensì in un’elastica sintesi vibrante. Alle arti del trivio (grammatica, dialettica, retorica) e a quelle del quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia) Vittorino aggiunse, segno di tempi nuovi, lo studio del greco. L’antichità restò modello: temperato, addolcito, spiritualizzato però da un caldo afflato cristiano. Dei ragazzi fu sempre rispettata la personale inclinazione, fino a giungere a scontri coi loro principeschi parenti: scontri nei quali fu sempre il pedagogo a prevalere. Emblematico il caso di Cecilia Gonzaga che, lettrice appassionata di Virgilio, sapiente in greco e in geometria, bramava farsi monaca, contrastando i disegni del padre Gianfrancesco, che la voleva sposa del lugubre Oddantonio Montefeltro. Vittorino le si pose al fianco e, a onta delle sfuriate paterne, fu la vocazione di Cecilia a vincere. Alla Zocosa nessuno era forzato ad imparare in fretta o a dannarsi su discipline che gli repugnassero. Lotta, tiro con l’arco, danza, nuoto, passeggiate intramezzavano le ore di studio. L’equilibrio tra mente, corpo, spiritualità e compito cui la vita destinava erano il fine proposto. Eguaglianza tra tutti e rispetto per ognuno tramarono e ordirono sempre la vita della scuola. Le punizioni corporali rimanevano solo il più lontano degli spauracchi, ma Vittorino non si astenne dal prendere a ceffoni Carlo Gonzaga che, sconfitto al gioco della palla, aveva bestemmiato. Le inclinazioni dannose venivan combattute con arguta, con dolce fantasia. Ludovico Gonzaga, ad esempio, era eccessivamente incline al cibo. Giacché amava la musica, i suoi pasti, sempre più brevi e radi, erano accompagnati da musici e cantori che ne distraessero la voracità. Lo si avvezzò così a un regime più sobrio. L’inesausta carità e l’indefettibile fermezza resero Vittorino caro alla plebe, ai mercatanti, agli scolari, ai dotti, ai cortigiani. Il capitano del popolo e poi marchese Gianfrancesco, pur azzuffandosi spesso con lui, mai ne neglesse i consigli. Paola sua moglie lo approvò e sostenne sempre. Ludovico, destinato a succedere al padre, non si sedeva mai in presenza dell’antico maestro. Che morirà un giorno di Febbraio del 1446.
L’atto storiografico è di natura revisorio: per fonti note all’improvviso, per altro taglio interpretativo, per nuove urgenze dettate dall’ora. La revisione a tutti costi è invece mera mania da bastian contrario. Bene: ch’io sappia, nessun maniaco della riscrittura scagliò mai frecce o sputi addosso al nome e all’operato di Vittorino da Feltre; e quanto all’eventuale bastian contrario che, letto codesto articolo, si senta gorgogliare in gola la sacra spuma insudiciante, gli auguro morte prima che riesca a espellerla.