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Noi, Voi, e il linfonodo

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Netto è lo stacco tra l’Io e il Tu. Quando due Io (tali sono in realtà) s’incontrano, entrano in relazione secondo tre modalità possibili: indifferenza, benignità, ostilità - a ridurle in concetto, ché nel turbinio delle cose tutto può fondere e impastarsi. Passare dall’Io al Noi dispensa ulteriori delizie e ulteriori tormenti. Dire “Noi” è innalzare un recinto: chi ne sta fuori può intristirsi; che lo si sia voluto o meno, avere sentenziato “Noi siamo Noi” può completarsi in petto all’Altro nell’asperrima spina di “e vvoi nun zete un cazzo!”. Ripeto: l’intento conta poco; l’esito può sgusciare secondo suo capriccio; il connettivo interumano con-fonde ogni volere.

Sono personalmente certo che chi ebbe l’estro di almanaccare un panino da battezzarsi forse “u’ gjeggju”, né aveva volontà malevola, né immaginava contraccolpi. Nella persona di questo o quell’arbërèsh, l’antico epiteto ha rinfocato braci spente o coperte di cenere, e il linfonodo dell’identità ha ripreso a irritarsi. A chi vive un travaglio, sadismo impone che gli si consigli di non viverlo. Estraneo al travaglio in questione ma più ancora alla venere sadica, fraternamente abbraccio ogni arbërèsh che ne sia torturato, e torno a snocciolare quanto mi preme.

         Nei secoli, le due etnie si sono guardate ringhiando o persino mordendosi. Il diverso impaurisce; turba, il diverso - e ricondurlo all’eguale è reazione spontanea del gruppo. La lotta umana si produce per simboli. Contemplata dall’alto, la scena è molto buffa, e forse Dio ne ride, ovunque essa si produca. Essere nella scena può comportare, invece, fare torto o patirlo. “Ljëtì” di suo vorrebbe dire solo “italico”, “latino”; pure, s’è andato caricando di risonanze così cupe da giungere a significare “rozzo”, “villanaccio”. Proprio per tali risonanze ha ulteriormente difeso il senso identitario degli Arbërèshë. Stesso inghippo di prima: al di là del personale intento di chi oggi lo pronunci, può “ljëtì” echeggiare sinistro in cuore all’italico cui è diretto: diverso nel diverso, il gruppo degli italici: enclave nell’enclave, oltre che autocnonia che enclavizza gli Arbërèshë... Due sentieri si schiudono: sentirsi tutti un Uno polverizzando ogni steccato: nel nome del Cristo, dell’Umanità, del politically correct, dello scimmione da cui si dice che tutti discendiamo; o irrobustire ogni steccato che ci definisce, correndo però il rischio di più o meno buffe o di più o meno tragiche frizioni. Giusto mezzo non c’è - volgare sempre, il giusto mezzo! Si può auspicare solamente una matura cordiale elasticità, da proporsi e da viversi istante per istante: ciò che Arbërèshë e Ljëtìnj fanno da tempo senza nemmeno dirselo.

Borbottone e pettegolo, il vento porta intanto a spasso l’eco di cento e cento geremiadi zampillate da cento e cento bocche albane in chissà quanti bar, chissà quanti salotti; e l’eco suona come segue: “U qëndrova proprio male per questa iniziativa; është një shurbès che ci umilia in quanto popolo e in quanto minoranza. Na arbërèshë siamo orgogliosi della nostra lingua, delle nostre tradizioni, della nostra identità, e mosnjerì ka të vinj ad ingiuriarci!” Son geremiadi pretestuose, che carolando s’accompagnano alla pena di chi pena sul serio. Tutto però si tiene. La geremiade stessa è pretestuosa per un aspetto solo: la masse parlante (Saussure) sacrosantamente si esprime come le aggrada, in arcipochi soffrono davvero per il vanire della lingua, folto è infine il drappello di chi ne lacrima per ufficio scenico. Tutto, ho detto, si tiene. Arbërèshë e Ljëtìnj convivono sereni: a onta d’ogni epiteto e a onta del passato; il nome stesso che battezzerebbe il panino ci riconosce altri, quindi più identici a noi stessi; leccornìe a parte, la nostra identità è inconcussa, materiata com’è di memorie, di bandiere colore del sangue su cui fa spicco la nera aquila bicipite; di sagre, di canzoni, del busto dell’eroe che fregia ogni nostro villaggio... Se la lingua è oramai un lago italico, gli isolotti d’arbërìshte non ancora sommersi dicono e sono identità. Non c’è legge a tutela o amor d’innamorato che possa convertire gli isolotti in vasta terraferma. Premesso che nessuna lingua è la somma delle sue parole, il fatto che l’arbërèsh preferirebbe farsi cavare tutti i denti senza anestesia pur di non fare uso d’una sola parola che suoni incongrua al gruppo suo stesso, gruppo che avverte congrua una arbërìshte sempre meno arbërèshe, non è colpa di alcuno: nemmeno degli Arbërèshë, ma di un fatale coagulo prodottosi nel tempo: dov’è infatti il tiranno che ci blocchi in gola un fluire d’eloquio puramente e totalmente albanico? dove il tiranno che ci neghi la liceità e la gioia di essere albanesi d’Italia? Prima però che l’acqua abbia sommerso ogni spunzone d’isolotto, viviamo in pace, ché Pace e Vita possono andare verso l’orizzonte tenendosi liete per mano. Ciao a tutti!  

Ettore Marino
Autore: Ettore Marino

Lettore, se ne hai curiosità, sappi che Ettore Marino, arbërèsh di Vaccarizzo Albanese, è nato a Cosenza nel 1966; che ha collaborato e collabora con varie gazzette cartacee e digitali; che per Donzelli Editore è uscita, nel 2018, la sua "Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri"; che nel 2021 è diventata libro, per le Edizioni "ilfilorosso", una sua raccolta di liriche intitolata "Patibolo"; che nell’Aprile del 2022 ha pubblicato, per Rubbettino Editore, "Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi"; che ha scritto molte altre cose di cui va talora chiedendosi se resteranno sempre inedite; che è arcilieto di collaborare con L’Eco dello Jonio; che il Covid, di cui pure ha patito, non gli ha fatto dismettere l’uso del tabacco; che ignora quando e come morirà.