Luigi Spetrillo lascia la direzione del carcere di Rossano: «Un’esperienza che mi ha cambiato»
Dopo due anni alla guida dell’istituto penitenziario, il direttore fa un bilancio della sua esperienza, tra difficoltà strutturali, emergenze sociali e riflessioni sul futuro del sistema carcerario italiano
CORIGLIANO-ROSSANO - Quando parla della sua esperienza - ormai conclusa - nel carcere di Rossano, il direttore Luigi Spetrillo ci racconta di un percorso che lo ha segnato profondamente, sul piano professionale ma soprattutto umano.
«È stato il mio primo incarico dopo il corso di formazione, e ho avuto la fortuna di confrontarmi con una realtà complessa e impegnativa non solo per la dimensione dell’istituto, ma anche per il contesto territoriale in cui opera. Ne esco profondamente cambiato, anche dal punto di vista umano: in questi anni sono nati tanti rapporti autentici, soprattutto con il personale, che rappresenta la vera forza del carcere».
Le difficoltà di un sistema sotto pressione
Gestire un istituto come quello di Rossano significa fare i conti con una macchina complessa, spesso sotto pressione. Spetrillo non nasconde le criticità, ma ne analizza con lucidità le cause: «L’istituto di Rossano non è né migliore né peggiore di altri. Prima di venire qui ho lavorato a Secondigliano, Aversa e Benevento, e le difficoltà erano le medesime. A fare la differenza sono le dimensioni: gestire un carcere con 100 detenuti non è come gestirne uno con 300».
Il direttore sottolinea anche la complessità legata all’approccio che richiedono i diversi circuiti detentivi: «Cambia molto se si tratta di detenuti comuni, di alta sicurezza o di criminalità organizzata. E ancora, è diverso gestire un istituto circondariale - dove i detenuti sono in attesa di giudizio e c’è il fenomeno delle “porte girevoli” - da una casa di reclusione, dove invece si trovano condannati in via definitiva».
Rossano, ricorda Spetrillo, «È un istituto ad alto indice di sicurezza, che ospita tre circuiti detentivi: media sicurezza, alta sicurezza 2 (uno dei pochi con detenuti per reati di terrorismo) e criminalità organizzata. L’alta criticità, unita al personale ridotto, ci costringe a una gestione attenta e flessibile per compensare le carenze. È un problema che purtroppo riguarda molte amministrazioni pubbliche».
Il disagio mentale in carcere: «Una riforma incompiuta»
C’è un tema che il direttore affronta con particolare preoccupazione, quello della salute mentale dei detenuti. La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari nel 2014, pur nata da buone intenzioni, ha aperto una ferita che il sistema penitenziario non ha ancora saputo risanare.
«La riforma del 2014 aveva obiettivi condivisibili, ma la sua applicazione è stata disastrosa. Gli OPG presentavano delle criticità ma la loro chiusura è avvenuta senza prevedere alternative concrete e valide. Così i detenuti con disturbi psichiatrici sono stati inseriti nella popolazione ordinaria, generando enormi difficoltà di gestione. In più, il personale penitenziario non ha competenze mediche per affrontare certe situazioni, e la convivenza tra detenuti con e senza patologie psichiatriche diventa spesso difficile».
Con il tempo, osserva Spetrillo, la situazione è peggiorata: «Oggi il disagio mentale in carcere è spesso esasperato. C’è chi lo strumentalizza, magari per ottenere benefici o trasferimenti. Ma resta il fatto che molti detenuti con problemi psichici non dovrebbero stare in carcere: la detenzione su di loro non può avere effetti rieducativi».
Medicina penitenziaria e fallimento delle REMS
Il direttore sottolinea anche la frammentazione del sistema sanitario penitenziario, diviso tra competenze interne e quelle delle aziende sanitarie locali. «La medicina penitenziaria non dipende dall’amministrazione penitenziaria, ma dalle ASP. Questo significa che non c’è autonomia né uniformità di trattamento. A Rossano abbiamo la fortuna di avere psicologi e psichiatri, ma non è così ovunque pertanto i detenuti con patologie psichiatriche vengono spesso dirottati qui, generando ulteriore sovraffollamento e pressioni nell’intera struttura».
Per Spetrillo, la soluzione dovrebbe essere radicale: «Chi ha un disagio psicologico serio non può stare in carcere. Il sistema delle REMS, che doveva sostituire gli OPG, è stato fallimentare. Lo hanno riconosciuto anche la Corte Costituzionale e la Corte Europea di Strasburgo. Eppure, dal 2014, il legislatore non è ancora intervenuto per correggere un modello che non funziona.»
Carcere e società, due facce dello stesso disagio
Le carceri – ammette il Direttore - sono lo specchio fedele della società che le circonda. Tra le emergenze più evidenti, quella della tossicodipendenza e della giovane età dei detenuti.
«Negli ultimi anni abbiamo assistito a un aumento enorme dei casi di tossicodipendenza. L’età media dei detenuti si è abbassata. Oggi entrano sempre più ragazzi tra i 18 e i 19 anni. Lo stesso fenomeno si osserva negli istituti penali per minori, dove cresce il sovraffollamento. Il punto è che ciò che vediamo dentro il carcere è solo il riflesso di ciò che accade fuori. L’abuso di alcol e droghe, la violenza tra giovani, l’assenza di riferimenti educativi: tutto questo alimenta il disagio che poi si riflette anche e soprattutto nelle carceri»
La funzione rieducativa: un obiettivo difficile ma non impossibile
Quando si parla della funzione rieducativa della pena, Spetrillo parte dal testo costituzionale per arrivare a una riflessione amara sulla realtà dei fatti: «L’articolo 27 della Costituzione dice che la pena “tende” alla rieducazione del condannato. Quel verbo, ‘tendere’, non è casuale: l’amministrazione penitenziaria ha il dovere di offrire gli strumenti — lavoro, istruzione, misure alternative — ma è poi il detenuto che deve fare la sua parte. La rieducazione non si impone, si costruisce».
Ma tra principi e realtà c’è un divario profondo: «Il sovraffollamento è il primo ostacolo. Le soluzioni, in teoria, sono semplici: o si costruiscono nuovi istituti e si investe in edilizia penitenziaria, oppure si adottano politiche che riducano gli ingressi in carcere, come la depenalizzazione o un maggiore accesso alle misure alternative. Ma lo Stato, di fatto, non mostra un impegno reale».
Anche il lavoro penitenziario, che dovrebbe essere una leva di reinserimento, soffre di continui tagli: «Ogni anno vengono ridotti i fondi per retribuire i detenuti che lavorano. Questo ci costringe a diminuire le opportunità e le ore di impiego. A Rossano avrei voluto far lavorare tutti, ma il budget era limitato. Inoltre, alcuni istituti in passato hanno fatto lavorare i detenuti oltre il limite contrattuale, e ora ci troviamo con un contenzioso enorme che l’amministrazione deve affrontare perché i detenuti hanno fatto causa agli istituti. È il segno di un sistema che non riesce a programmare, ma solo a rincorrere le emergenze».
In conclusione, per Spetrillo, il vero nodo da sciogliere per restituire senso alla pena resta quello della sicurezza e della dignità negli istituti penitenziari, a partire dal problema del sovraffollamento: «Tutti i governi, nel tempo, hanno scelto la via più semplice: inasprire le pene e moltiplicare i reati. Se lo Stato vuole davvero che la pena sia rieducativa, deve investire nell’edilizia carceraria, nel lavoro, nella formazione e nel personale. Perché un carcere che non offre prospettive e che non vive in sicurezza, non può garantire la rieducazione ma tenderà a riprodurre il disagio sociale che vorrebbe curare, senza i giusti mezzi per contenerlo».