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Ferramonti: il campo di concentramento che ha beffato Hitler

3 minuti di lettura

CORIGLIANO-ROSSANO – Del Campo di concentramento Ferramonti, a Tarsia spesso si parla, così come spesso, tante verità restano silenziose o solo alla portata degli appassionati di storia del nostro territorio e, in questo caso dell’Italia intera.

 

Perché il Ferramonti fu un campo davvero sui generis rispetto a quelli che conosciamo attraverso le immagini di repertorio storico o di film famosi in tutto il mondo.

 

In questo breve, ma significativo excursus, ci affideremo alle ricerche di uno dei più grandi storici italiani Renzo De Felice, ma anche ad un incrocio di fonti ebraiche così come italiane, che ci daranno un quadro più ampio di una realtà unica nel suo genere ma che, soprattutto mette in evidenza una caratteristica molto importante, l’atteggiamento dei meridionali, soprattutto calabresi, che gestivano quello che era alla luce di tante testimonianze, un finto lager.

 

Ed è riduttivo non puntualizzare come anche la gente del posto, fosse poco in linea con le leggi razziali emanate dal governo di allora.

 

Questo ha fatto sì che il Ferramonti non fosse un lager ma piuttosto, consentiteci l’azzardo, un luogo dove gli internati erano più al sicuro che fuori, alla mercè delle truppe naziste.

 

Il campo fu il primo in Italia, ad essere edificato ex- novo, in una zona paludosa. Già in questo frangente un calabrese dimostra che al di là della razza, il rispetto per la vita umana resta indiscusso. Parliamo del dottor Chimenti, medico provinciale di Cosenza, che entrò in aperto contrasto con la ditta Parrini, che edificò il campo, in quanto essendo l’ambiente malarico, il progetto andava in netto contrasto con il decreto di internamento che prevedeva l’installazione dei campi di concentramento dei sudditi nemici in luoghi salubri, anche per evitare inutili complicazioni di natura sanitaria. Ma Parrini, di cui tanto si è discusso perché figura emblematica, arginò l’ostacolo e nel giugno del 1940 il campo aprì le porte ad ebrei non italiani, a qualche anti-fascista e a persone di nazionalità nemica all’Italia.

 

Elemento importante questo, da tener presente: a Tarsia furono infatti deportati solo ebrei provenienti dai vari Paesi europei, ma non italiani. Questi ultimi probabilmente trovarono riparo in Italia o riuscirono a fuggire lontano dai territori dominati dalla Wehrmacht e dai suoi alleati. In merito a questo dato, molti gli scenari aperti dagli studiosi in questi decenni, tra i quali quello che ci colpisce di più, ha al suo centro un documento pubblicato dalla polizia zarista nel 1903 e che ha fatto la fortuna del libro “Il Codice Da Vinci” di Dan Brown: i Protocolli dei Savi di Sion.

 

Risultato anni dopo un falso, tale documento, che parlava di una cospirazione ebraica per dominare il mondo, portò in effetti, una nuova ondata di antisemitismo che si diffuse progressivamente in tutta l’Europa e negli Stati Uniti, trovando nella Germania il suo centro recettivo più diffusamente rilevante, già dai primi anni del ‘900.

 

Anche in questo caso l’Italia dimostra di essere controcorrente in quanto durante la I Guerra Mondiale, il nostro esercito annoverò ben quindici generali e tre ammiragli ebrei.

 

Chiaramente l’antirazzismo italiano, trova nel sistema Ferramonti la sua massima e ancora avanguardista espressione. Elencheremo solo alcune peculiarità di un campo di internamento che, rispetto a quelli siti in altri Paesi, teatri di crudeltà indicibili, brilla come un esempio di tolleranza e dignità.

 

La direzione del commissario di pubblica sicurezza, Paolo Salvatore, avellinese, con alle dipendenze alcuni agenti comandati dal maresciallo Gaetano Marrari di Reggio Calabria, insieme ad un reparto di camicie nere della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn) reclutate dai paesi limitrofi, durò fino al 1943.

 

Ricordiamo che il direttore concesse agli internati la possibilità di riunirsi in forma di assemblea rappresentativa. Da qui nasce il Parlamento di Ferramonti che fu la struttura sociale e organizzativa più rilevante del campo: tutti gli occupanti di ciascuna baracca eleggevano un proprio rappresentante e l’insieme di tutti i rappresentanti eleggeva un unico “capo dei capi” che era il più alto in grado nel Parlamento e colui che aveva rapporto diretto con la direzione del campo.

 

Lo stesso Salvatore permise la creazione di una scuola ricordata ancora oggi, da coloro che furono i “bambini” di Ferramonti. I fanciulli tra l’altro, venivano portati dalle autorità sorveglianti, in giro con la macchina o la moto di servizio e veniva offerto loro un gelato in paese. Inoltre le famiglie non venivano separate, ma vivevano insieme nelle baracche, provviste di cucina. Anche se proibito leggere, nel campo esisteva una biblioteca con diverse centinaia di libri tenuta da due internati che erano stati bibliotecari e si stampava un giornalino.

 

Esiste la documentazione anche di piccoli depositi bancari presso il Banco di Napoli di Cosenza, aperti da un centinaio d’internati che erano riusciti a portare con sé del denaro.

 

Ancora oggi nelle zone limitrofe a Tarsia, spesso si sentono racconti tramandati dalla gente del posto che testimoniano scambi commerciali tra internati e, come succede spesso nei periodi di guerra, “operatori” del mercato nero.

 

Un modello quello che abbiamo descritto e riportato, non sicuramente basato sul buonismo, ma bensì sulla semplicità ed il senso di comunità che, così come successo al Ferramonti, è un tratto distintivo della gente di Calabria, che spontaneamente è andata contro regimi che hanno segnato in modo sanguinario, la storia dell’intera umanità.

Francesca Sapia
Autore: Francesca Sapia

Ha due lauree: una in Scienze politiche e relazioni internazionali, l'altra in Intelligence e analisi del rischio. Una persona poliedrica e dall'animo artistico. Ha curato le rassegne di arti e cultura per diversi Comuni e ancora oggi è promotrice di tanti eventi di arti visive