Via D'Amelio e il valore del ricordo in una nazione che non sa dove andare
Quel 19 Luglio 1992 era domenica una fiat 126 di colore bordeaux con un bagagliaio imbottito di esplosivo tolse la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta. Cosa resta di quel ricordo?
È stata una bella giornata quella domenica, la prima che il magistrato si prese di vacanza dopo tanto tempo. Una giornata di vacanza sì, ma sempre con la scorta, sempre con quei dodici angeli custodi divisi in due turni da sei.
Quella Domenica del 19 Luglio 1992 una fiat 126 di colore bordeaux con un bagagliaio imbottito da novanta chili di Semtex-h, Pentrite e C-4 esplose con una potenza pari a cento chili di tritolo, che lasciò a terra un cratere di due metri di profondità e tre di diametro, sfondando tutte le finestre. Il botto si sentì in quasi tutta Palermo.
La bomba ammazzò Claudio Traina che aveva un figlio di un anno. In quei giorni era ancora più attaccato alla sua famiglia, come se lo avesse saputo che non li avrebbe visti mai più. Ammazzò Vincenzo Limuri, che non lo seppe mai, ma quella mattina prima di uscire, sua madre andò a guardarlo dormire, come fanno le mamme con i figli, anche quando sono grandi.
La bomba è andata a prenderli tutti e due all'ingresso del numero 19 facendoli a pezzi. È andata a prendere Walter Eddy Cosina, che non avrebbe neanche dovuto esserci quel giorno: doveva andare in ferie, ma dovette sostituire un collega. Fa pezzi anche Agostino Catalano, che aveva portato sulle spalle la bara di Giovanni Falcone. Neanche Manuela Loi doveva esserci, è rientrata prima dalla Sardegna. Se no i colleghi come fanno ad andare in ferie?
La bomba va a prendere quella ragazza minuta e tranquilla accanto al suo magistrato. La fa a brandelli e la lancia lontano, in un giardino accanto. La bomba fa a pezzi anche Paolo Borsellino, lo taglia quasi in due, gli brucia la pelle e gli strappa le gambe e le braccia. Diventa un tronco. La figlia Lucia riferì che Borsellino è morto sorridendo. Sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell'esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre. È questo che fanno le bombe, così sono le stragi. È così che uccideva la mafia.
È così che dopo 32 anni bisogna portare “gioiosamente” il testimone di un magistrato intriso – come si usava (imperfetto indicativo, quindi passato e non presente) nel suo credo politico accentuatamente di destra – di valori forti e un alto senso dello Stato. Lo stesso che lo si dovrebbe insegnare dalla prima elementare. Un magistrato che da queste sue idee non si lasciò, però, mai condizionare, soprattutto quando si doveva decidere le sorti di un imputato. Il suo amore per la giustizia era più forte di tutto.
Paolo Borsellino deve continuare a vivere soprattutto oggi, dove nelle nuove classi i ragazzi non riconoscono il suo viso e quello di Giovanni Falcone. Deve continuare a vivere soprattutto perché è finita l’epoca della mafia stragista soppiantata da una versione più raffinata e “lungimirante”. A 32 anni dalla morte forse poco è cambiato, oppure tutto. Una nazione bloccata nel mood del tutto cambia per rimanere esattamente com’è. Non esiste più un’Italia che riusciva ancora a scandalizzarsi e scendere in piazza. Chiedeva giustizia, equità, verità. Un’Italia attenta, con un tessuto sociale adeguato ad un paese come il nostro. Una nazione che, almeno, riusciva a fare i conti con sé stessa.