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L’istituzione scolastica in Italia è un reparto di geriatria in cui non si assume più nessun giovane con anima e voglia

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La scorsa settimana mi sono imbattuto nel trafiletto sul Corriere della Sera curato da Massimo Gramellini dal titolo: la scuola dell’ansia. In sostanza i ragazzi di oggi soffrono infinitamente e più profondamente rispetto al passato l’essere giudicati. Addirittura nel Liceo Brechet di Milano ben cinquantasei studenti hanno detto basta e si sono trasferiti, oltre trecento hanno ammesso di soffrire d’ansia e di sentirsi vessati dai professori. 

Nella mia esperienza di appena due anni di insegnamento ho capito tanto dagli sguardi dei ragazzi che ho conosciuto. Molte volte mi chiedono come sono gli alunni di oggi, se sono davvero così screanzati e come faccio a sopportarli. Allora rispondo che ogni nuova generazione ha qualcosa in più di quella precedente, che sono più stimolati, più veloci, più dolci, più maturi, pronti a fare entrare spirito e, soprattutto, maledettamente soli. 

Tra dieci anni ci renderemo conto dei danni che stanno facendo i social e i cellulari sulla mente dei ragazzi e dei bambini. Quando frequentavo le medie un mio compagno di classe, bravissimo con il PC, alla domanda della professoressa di Italiano su come vedesse internet (era il 2001, in pieno boom), rispose: «È pericolosissimo». Allora non capii perché lo vedevo come un luogo in cui sfamare la curiosità e scoprire il mondo. 

Il più basso e alienante momento di intimità per una coppia, per una famiglia, per un nucleo è quello che si passa davanti alla tv senza dire nulla. Immaginate cosa può essere sostituire la tv con i reels di Instagram e Tik Tok. Provate a chiedere ai vostri figli cosa cercano? Risponderanno niente, mentre continueranno a fare su e giù con il pollice. Provate a chiedere: ma non vi stufate? Vi risponderanno sì, «però continuiamo lo stesso». Il social è una piazza in cui esistono modelli che li fanno sentire sempre e comunque inadeguati. Non dimentico mai che la mia era l’adolescenza in cui mia madre mi chiedeva “quando torni?”, quella di adesso si è capovolta nella domanda del “quando esci?”. 

Sono rari gli alunni che mi guardano negli occhi o che stanno attenti per più di cinque minuti, la loro vita è legata a quella velocità dei reels, tutto deve durare pochissimo. I ragazzi di oggi sono superfragili, c’è il rischio di mandarli in mille pezzi in un attimo.

Una mattina, ho chiamato all’interrogazione una ragazza e ha iniziato a tremare. Le dissi che per battere l’ansia bisogna farsela amica e che se canalizzata poteva diventare la sua benzina, la sua forza, delle ali per spiccare il volo. Il giorno dopo quella ragazza non aveva più gli occhi opachi e l’ho vista sorridere anche se spiegavo l’analisi del periodo. Un’altra volta un ragazzo (ed era eccellente) durante una gara dei verbi mi chiese tre volte di andare in bagno perché se la stava facendo sotto. Una ragazza, con la faccia ancora da bambina, non emetteva suoni poi ho capito che si sbloccava con un sorriso e con un «non è niente, sono sicuro che hai studiato e sei bravissima». Petrarca era diventato il suo migliore amico e prese 8 e mezzo. 

La mia scuola era quella de “La Pedagogia deve essere violenta”, la mia scuola non conosceva nulla sul disturbo dell’attenzione, sull’iperattività, sull’ansia e sulla paura. Era colpa del ragazzo e quel ragazzo o prendeva non sufficiente oppure veniva sospeso. Una docente mi chiamava “cretino patentato”, un’altra mi ripeteva che non sapevo scrivere, un’altra ancora che ero la vergogna della mia famiglia. Vaglielo a spiegare che dietro all’alunno più tormentato, vivace e discolo si nasconde il più sensibile. Avere a che fare con l’educazione di un ragazzo dodicenne significa fare un’operazione a cuore aperto e rischiare di lasciare una garza incastrata nei tessuti per sempre.

“Lettera ad una Professoressa” dei ragazzi di Barbiana di Don Milani apre il primo capitolo sulla timidezza, che è l’anticamera educata dell’ansia. “Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non essere visto”. Questo sentivano i montanari, i contadini, gli operai, i poveri. Se non capiamo che oggi gli ultimi sono i ragazzi più fragili allora “la scuola diventa un Ospedale che cura i sani e manda via i malati e diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile”. 

Proprio due settimana fa, in una seconda media dove ho insegnato, ho chiesto ad ognuno di loro di scrivere su un foglietto anonimo quelle che sono le loro paure e le loro ansie. La maggioranza della classe ha scritto: il giudizio degli altri e le interrogazioni. La scuola che assegna e non insegna, che parla dei ragazzi e non ai ragazzi, che non ricorda loro che si va in quel luogo perché si imparano cose belle e non per prendere un voto in più rispetto al compagno di banco, beh, quella scuola va chiusa. Una scuola che diventa un carcere per adolescenti seduti per cinque ore come dei perfetti soldatini istiga il sorvegliare e punire; stipati tra i banchi quale creatività può detonare? 

Purtroppo l’istituzione scolastica è un reparto di geriatria in cui non si assume più nessun giovane con anima e voglia. Provate a vedere cosa bisogna fare per passare di ruolo, manco fossimo alla Nasa. La scuola per decenni si è riempita la bocca di pedagogia e ha messo da parte le discipline che oggi servono a formare chi quei ragazzi se li troveranno di fronte con i loro mondo e le loro paure. Bisogna formarsi su psicologia, psicoanalisi e filosofia. I corsi di aggiornamento andrebbero fatti sulla musica che ascoltano, sui manga che leggono, sulle live su Twitch e sui sogni che hanno. Platone diceva che la mente si apre solo se si apre anche il cuore. Ma che cuore si può avere se i ragazzi esplodono di fobie e non vengono capiti? 

Parlate con qualunque professore e vi dirà che nelle classi i ragazzi sono pieni di problemi. Mai un genitore, negli incontri scuola famiglia, mi ha chiesto se il figlio fosse felice, volevano sapere solo perché aveva otto e non nove. Rispondendo alla prima domanda: come sono i ragazzi di oggi? In un paesino di montagna dove ho insegnato ho chiesto ad una ragazza quale azione più sensibile avesse mai compiuto. Mi ha risposto: «Un giorno ho trovato un fiammifero spento e bruciacchiato a terra, l’ho preso e l’ho seppellito nel posto più bello del bosco». Non c’è altro da aggiungere. 

Josef Platarota
Autore: Josef Platarota

Nasce nel 1988 a Cariati. Metà calovetese e metà rossanese, consegue la laurea in Storia e Scienze Storiche all’Università della Calabria. Entra nel mondo del giornalismo nel 2010 seguendo la Rossanese e ha un sogno: scrivere della sua promozione in Serie C. Malgrado tutto, ci crede ancora. Ha scritto per Calabria Ora, Il Garantista, Cronache delle Calabrie, Inter-News, Il Gazzettino della Calabria e Il Meridione si è occupato anche di Cronaca e Attualità. Insegna Lettere negli istituti della provincia di Cosenza. Le sue passioni sono la lettura, la storia, la filosofia, il calcio, gli animali e l’Inter. Ha tre idoli: Sankara, Riquelme e Michael Jordan.