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Al di là del sacrificio: l’inganno della Croce

3 minuti di lettura

Ad una prima analisi, il racconto evangelico si mostra solo nella sua funzione sinottica ma sappiamo che è foriero di un messaggio salvifico ed escatologico straordinario.

Tuttavia, analizzando con più attenzione gli eventi dell’Antico e del Nuovo Testamento, è possibile ripensare le scene narrate alla luce di una simbologia nuova, per nulla scontata, che mostra l’inutilità del sacrificio disvelando la verità dell’annuncio evangelico e sancendo la fine del sacro.

Secondo il filosofo René Girard, che mette in connessione la violenza e il sacro, l’umanità ha da sempre trasferito l’aggressività del gruppo sociale d’appartenenza su una vittima casuale (innocente) che rispondesse a criteri di anormalità, il capro espiatorio, capace di ristabilire l’ordine ed esorcizzare l’avvento di un evento nefasto.

Secondo questa lettura antropologica ed in parte etnologica dei comportamenti che hanno sorretto le società umane primitive, Girard ci mostra come l’azione rituale alla base della pratica sacrificale sia capace di allontanare la violenza, consumarla sulla vittima (evitando che possa incanalarsi altrove) e salvare così l’integrità del gruppo sociale.

La morte di Cristo si iscriverebbe nella lunga sequela di morti sacrificali, in cui la vittima viene uccisa in modo violento a causa della sua alterità e della minaccia sovversiva che incarna. Questa morte però è eccezionale perché vuole rappresentare l'ultimo anello della catena grazie alla quale viene dimostrata l'inutilità della violenza nella pratica sacrificale che Cristo vuole smascherare. Anche nel linguaggio ravvisiamo un’inversione di tendenza, se dapprima si parlava di vittima (che era spesso un animale) adesso con Cristo si parla di Agnello di Dio. Questa immagine elimina gli attributi negativi e sgradevoli dell'animale vittimario e rimanda, al contempo, all'idea della vittima innocente.

Il sacrificio di Cristo rappresenta quindi la condizione necessaria perché venga svelata l'innocenza delle vittime nel corso della storia e perché si comprenda l’origine umana e culturale di una pratica perpetrata per secoli. Gli accusatori e carnefici di Cristo hanno fatto sì che si compisse l’Ultimo Sacrificio.

In quest'ottica la crocifissione si riveste di un significato del tutto diverso. Non è Cristo che viene inchiodato, ma in lui e nel suo gesto vengono inchiodati tutti i meccanismi iniqui che hanno guidato e retto le società umane del passato.

Nella Resurrezione egli vuol far rivivere tutte le vittime innocenti, e per questo la Croce diventa simbolo di vita e non di morte. La Croce trionfa, e il trionfo non è avvenuto in seguito alla violenza ma rinunciando ad essa, a tal punto da doverla subire ed esibire. Egli stesso si umilia, egli stesso si fa vittima, egli stesso diviene simbolo.

Ecco perché la serie degli eventi che portano alla passione, non mostrano soltanto la cecità dell'uomo rispetto alla rivelazione, ma sono necessari affinché Cristo disveli la verità misconosciuta fino ad allora.

Cristo mostra che solo dopo questa morte, la sua morte, c'è Resurrezione.

La croce è «la scrittura tragica che inscrive la violenza umana nel suo fondamento ultimo, ma Gesù chiede al padre di non trattarla come tragica scrittura del rifiuto, bensì secondo ciò che non era e che Lui ha fatto divenire [ecco l'inganno della Croce!], trasformando il simbolo dell'odio in un simbolo d'Amore. Gesù fa della croce il perdono di Dio (R.G)».  

Il sacrificio, anche quello non strettamente rituale, è stato sempre considerato la via privilegiata per accostarsi alla sfera della trascendenza e del divino. Questa lettura smonta tale visione. Demistificando il sacrificio è possibile ripensare gli avvenimenti alla luce di una gratuità che non comprende necessariamente la sofferenza come strumento di conquista e redenzione. Tutta la narrazione cristiana ha insistito sui temi della colpa e della rinuncia generando società oppresse e schiave. Da qui si è imposta la figura che incarna l’ideale cristiano classico e che Nietzsche ha definito uomo religioso: colui che vede nel corpo e nei suoi desideri (troppo umani) una minaccia permanente da eliminare attraverso la privazione, la quale rappresenta una nuova forma paradossale di godimento.

È una pratica, questa del sacrificio e della privazione, ereditata dalla visione colpevolizzante del cristianesimo: Cristo è venuto per liberarci da queste catene. Come scriveva Žižek: «Il sacrificio di Cristo ci rende liberi non perché esso sia un pagamento per i nostri peccati, né perché sia un riscatto legalistico, ma perché mette in atto questa apertura. Quando abbiamo paura di qualcosa (la paura della morte è la paura ultima che ci rende schiavi), un vero amico ci dirà qualcosa come “Non avere paura, guarda io farò proprio ciò che temi e lo farò gratuitamente – non perché devo ma perché viene dal mio amore per te, io non ho paura!”».

Foto in copertina - The Passion

Rita Rizzuti
Autore: Rita Rizzuti

Nata nel 1994, laureata in Scienze Filosofiche, ho studiato Editoria e Marketing Digitale. Amo leggere e tutto ciò che riguarda la parola e il linguaggio. Le profonde questioni umane mi affascinano e mi tormentano. Difendo sempre le mie idee.