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«Riace è una visione politica», Lucano difende (ancora) il suo modello amministrativo

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CORIGLIANO - ROSSANO - L’immigrazione al centro del dibattito che ieri ha animato la sala dell’ex Delegazione Comunale in occasione dell’iniziativa organizzata dall’Associazione 25 Aprile Marco De Simone, che ha visto come ospite indiscusso Domenico Lucano, l’ex sindaco di Riace condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi di carcere alla fine del processo “Xenia” e ora in attesa del giudizio di appello.

La strage di Steccato di Cutro ha riacceso un faro, anzi un’intera centrale elettrica, sul fenomeno dei flussi migratori e anche Lucano – citato dall’autorevole rivista Forbes tra le 40 persone più influenti al mondo, nonché ideatore del cosiddetto modello Riace – ha voluto dire la sua: «non sono un esperto di immigrazione o sviluppo sociale. Quello che ho imparato l’ho imparato strada facendo. Riace è un modello di spontaneità, sono state le comunità bracciantili a insegnarmi la via. La mia è una terra povera ma fiera di accogliere i viaggiatori».

D’altronde, come si legge nel Vangelo, nessuno è profeta in patria e la politica di accoglienza e integrazione che per anni ha fatto parlare del piccolo borgo della Locride come di una città ideale per inclusione e sviluppo sociale, è costata all’ex sindaco una condanna di oltre 13 anni. Ma, a latere di quello che si legge nero su bianco sulla sentenza emessa dal Tribunale di Locri in cui, tra gli altri, compaiono i reati di truffa e associazione a delinquere, Lucano è convinto: «Riace è anche un’idea politica e le destre del mondo sono contro gli immigrati».

Dunque, affossando Lucano, si affosserebbe anche la cultura dell’accoglienza e dell’inclusione sociale. Una questione politica insomma, così il diretto interessato spiegherebbe anche il reale motivo della sentenza.

«Il mandante della strage di Cutro - prosegue con fervore - è stata l’ideologia -. Per anni si è parlato della chiusura dei porti ma la responsabilità non è di chi rischia la vita in questi viaggi della speranza, ma di chi obbliga queste persone a lasciare la loro terra. Colpevole è chi vende le armi, chi provoca la povertà, la desertificazione in quei continenti. La colpa è dell’Occidente».

Il modello Riace dovrebbe dunque porsi come elemento di rottura rispetto a una politica cinica basata sulla cultura dei respingimenti, modello così aperto al prossimo da far commentare all’ex presidente della Regione, Mario Oliviero, presente ieri al tavolo dei relatori, che se «Cristo si è fermato ad Eboli è risorto a Riace».

«Mimmo - racconta Oliviero -  ha costruito un’esperienza in un contesto in cui il fenomeno dell’immigrazione veniva utilizzato per alimentare paure, insicurezza, per rappresentare i flussi come un fattore di instabilità e immissione di elementi di criminalità nella società. Ricordo - aggiunge - come la Lega soffiasse su quegli elementi. Bastava un fatto delinquenziale per costruire una letteratura attorno al fenomeno. Si è costruita un’ondata d’odio in Italia ma anche in Europa. Immigrazione uguale instabilità».

Per Mimmo Lucano gli immigrati che continuavano a sbarcare e trovare spazio nel paesino della Locride costituivano una risorsa mettendo un freno allo spopolamento del paese e smuovendo nuovamente l’economia. Quest’idea di sviluppo, tra l’altro considerata un modello esportabile oltre confine, trova però i suoi grossi limiti nella sentenza emessa dal Tribunale in cui si legge che Lucano, «essendosi reso conto che gli importi elargiti dallo Stato erano più che sufficienti, piuttosto che restituire ciò che veniva versato, aveva pensato di reinvestire in forma privata gran parte di quelle risorse, con progetti di rivalutazione del territorio, che, oltre a costituire un trampolino di lancio per la sua visibilità politica, si sono tradotti nella realizzazione di plurimi investimenti».

Il dibattito si è chiaramente spostato su una contrapposizione continua tra chi accoglie e chi respinge. Non si accettano sfumature. Non importa a quale prezzo o con quali strumenti, in perfetto accordo con quella logica machiavelliana secondo la quale il fine giustifica i mezzi. Mai come in questa vicenda, però, è evidente che chi di ideologia ferisce, di ideologia perisce.

 

Valentina Beli
Autore: Valentina Beli

“Fare il giornalista è sempre meglio che lavorare” diceva con ironia Luigi Barzini. E in effetti aveva ragione. Per chi fa questo mestiere il giornalismo non è un lavoro: è un’esigenza, una passione. Giornalista professionista dal 2011, ho avuto l’opportunità di scrivere per diversi quotidiani e di misurarmi con uno strumento affascinante come la radio. Ora si è presentata l’occasione di raccontare le cronache e le storie di un territorio che da qualche anno mi ha accolta facendomi sentire come a casa. Ed io sono entusiasta di poterlo fare