I nuovi poveri? Sono quelli che pagano le tasse!
C’è una fotografia ufficiale del nostro territorio che stona con quella reale, fatta di outfit di lusso. È un azzardo ma… chi dichiara (sempre di meno), spesso è costretto a rateizzare i propri impegni col fisco «fino alla bara»

Appena ieri sulle pagine dell’Eco dello Jonio vi abbiamo mostrato un’istantanea del “livello di povertà” di questo territorio (leggi qui l'articolo in primo piano). Dati certificati, estratti dal portale del MEF; quindi non numeri e cifre buttate lì a caso. E la fotografia ufficiale è di quelle da libro cuore. La foto reale, però, sembra un’altra. Un po’ come se ci mettessimo in posa vestiti di stracci ma in realtà il nostro outfit è tutt’altro che da grandi magazzini o, peggio, da mercatino dell’usato.
Eppure nei 58 comuni che costellano la Sibaritide-Pollino, la “nostra” Calabria del nord-est, ci sono 9 tra i 100 comuni più poveri d’Italia. Ufficialmente – dicevamo – è così. Un dato che farebbe tremare i polsi, se non fosse che la realtà – quella che si vede per strada, quella che senti ai tavoli dei bar e nelle piazze – racconta tutta un’altra storia.
Ma davvero qui siamo poveri? Basta dare un’occhiata al parco macchine – SUV nuovi di zecca, berline di lusso, utilitarie di ultima generazione – o fare un giro tra case, villette, appartamenti e immobili di vario genere. Questo territorio, di miseria, ha solo l’apparenza statistica. La povertà, semmai, è quella raccontata dal fisco: una povertà “cartacea”, che si esaurisce nei moduli dell’Agenzia delle Entrate.
Una ricchezza distribuita malissimo
Il problema non è che qui non ci siano soldi. È che i soldi sono maledettamente distribuiti male. La classe media è evaporata: chi aveva un lavoro stabile e dignitoso – nel pubblico impiego o nel privato – oggi arranca perché il posto fisso o stabile è sempre meno, mentre i ricchi diventano più ricchi e i poveri… restano tali, o si trasformano in “sussidiati”. Già, perché una buona fetta di popolazione si sostiene con ammortizzatori sociali, disoccupazione, indennità, malattie, assegni e via dicendo. Redditi bassi che il MEF conta come povertà, ma che in realtà garantiscono una sopravvivenza che con la vera miseria non ha niente a che fare.
I nuovi poveri, allora, sono quelli che il reddito lo dichiarano. Perché quel poco che guadagnano lo vedono prosciugato dalle tasse, dalle addizionali, dai contributi. Sono loro i veri “straccioni fiscali”: persone che lavorano, producono, vengono puntualmente punite perché hanno un reddito ufficiale da esibire allo Stato e che – come dice un amico – hanno rateizzato tasse, contributi, balzelli e impegni con il fisco «fino alla bara»
L’economia da bar
Il resto è economia da bar, in tutti i sensi. Si campa di piccole rendite, lavoretti, sussidi. E in molti – strano ma vero – vivono ancora di nero. C’è chi si fa vedere con l’ultimo modello di smartphone ma risulta nullatenente, chi mantiene tre famiglie con la pensione della nonna, chi vive “bene” con redditi che sulla carta gridano povertà. E nel frattempo le statistiche piangono, raccontando di territori in ginocchio.
Il lavoro poverissimo che non conta
C’è poi il grande rimosso: il lavoro bracciantile agricolo. Quello vero, quello pagato quattro soldi, lo fanno solo gli stranieri, extracomunitari che vivono in condizioni disumane e che molto spesso sfuggono ai conti dell’ISTAT. La nostra agricoltura – fatte le dovute e sacrosante eccezioni - sopravvive così, con manodopera che nessuna tabella ufficiale potrà mai rappresentare. Sono pochissime le aziende che assumono, pagano, inquadrano. Tutto il resto è schiavitù moderna, invisibile al fisco e al Ministero.
Alla fine della fiera… ci sono i dati del gioco d’azzardo
E allora, di cosa stiamo parlando? Dei “poveri” di Plataci, Caloveto, Nocara e compagnia? No: parliamo di numeri che non fotografano la vita reale, ma solo un pezzetto distorto. Perché se fosse davvero così, se la nostra fosse davvero terra da sussistenza, non vedremmo il giro d’affari che ogni giorno passa davanti ai nostri occhi.
E attenzione, un campanello d’allarme su una discrasia nei conti, sulla contraddizione delle cifre ufficiali, arriva sempre da altre fonti autorevoli e certificate: il gioco d’azzardo. La Calabria del nord-est, per lo Stato, è tra le aree redditualmente più povere d’Italia e, allo stesso, tempo ha uno dei tassi più elevati di gioco d’azzardo del Paese (ne abbiamo parlato nei mesi scorsi). E le due cose – attenzione – potrebbero pure sussistere nel comun denominatore della disperazione economica. Però, a fronte di un territorio “poverissimo” risulta davvero strano che si trovino i soldi per giocare alle slot, fare scommesse, sistemi e schedine. Stona.
E, allora, più che povero, è probabile che il Nord-Est calabrese sia disuguale, schizofrenico, forse anche ipocrita. Ha ricchi che contano e poveri che arrancano, ha una classe media sparita e un’economia informale potentissima (quasi come se fosse una lobby) che brucia sotto la cenere. I dati del MEF non lo raccontano. Lo racconta, semmai, la quotidianità: e quella ci dice che qui la vera miseria è dover dichiarare fino all’ultimo centesimo.