Schiavonea, tra i campi e le baracche: vite invisibili tra sfruttamento e ingiustizie
Ogni giorno uomini e donne lavorano sotto freddo e pioggia per pochi euro, vivendo in baracche di fortuna. Carmen Florea denuncia i diritti negati e chiede di passare dall’emergenza alla prevenzione
CORIGLIANO-ROSSANO - A Schiavonea, le prime luci dell’alba non portano speranza, ma freddo e fatica. Alle sei del mattino, lungo stradine conosciute, si radunano uomini e donne in attesa dei furgoni che li porteranno nei campi. Li osserviamo: mani screpolate dal lavoro, occhi stanchi, corpi piegati dalla fatica. Quando piove, non hanno protezione; quando fa freddo, non hanno rifugio. La loro giornata termina intorno alle 16.30, dopo ore di lavoro pagate 40-45 euro, con una doccia di fortuna e un pasto alla mensa della Caritas. Vivono in più di dieci baracche di fortuna, in spazi angusti condivisi da quasi trenta persone.
Le condizioni sono durissime, eppure lontano dai riflettori qualcuno cerca di aiutare. Tra questi c’è Carmen Florea, una donna che da 25 anni lavora nel sociale e nell’ambito dell’immigrazione. «Ho sempre vissuto in mezzo alla gente», ci racconta. «Ho visto situazioni di degrado, soprusi, diritti negati. Ho sviluppato il mio percorso migratorio e oggi cerco di condividerlo con chi, come me, ha lasciato la propria terra in cerca di un futuro migliore».
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Le sue parole sono dure, ma vere: «Ogni giorno vedo persone ai margini, sfruttate, ignorate dalla società. Dalla tragedia ferroviaria dei sei connazionali che sappiamo com’è finita, al femminicidio di Florentina Boaru, fino a chi viene lasciato morire in case senza luce o sfruttato nei campi senza soldi per tornare in patria… Sono ingiustizie enormi».
E aggiunge un monito importante: «Ogni anno siamo abituati a stendere un velo pietoso su queste situazioni o far finta di scoprire l’acqua calda. Sarebbe il momento di non parlare più in termini di emergenza, ma di prevenzione».
Carmen non si limita a raccontare i casi limite: «L’integrazione non è solo contributo economico», continua. «Significa partecipazione alla vita sociale, cittadinanza attiva, rappresentanza. Molti non hanno rappresentanza politica, sindacale o associativa, eppure hanno diritto a vivere con dignità». La sua esperienza ci permette di vedere non solo le emergenze, ma la quotidianità, le burocrazie eccessive, le fatiche invisibili di chi lavora e sopravvive tra baracche e campi.
Così come esistono stereotipi negativi – extracomunitari che delinquono – ci sono tanti lavoratori sfruttati, invisibili, che faticano per pochi euro al giorno. Parlarne non è strumentalizzazione: è dare voce a chi voce non ha, denunciare l’ingiustizia sociale che si ripete di anno in anno.
In mezzo alla fatica, al freddo, alla pioggia e alla solitudine, c’è chi cerca di non lasciarli soli. Ma non basta. Servono interventi concreti, strutturali e duraturi, al di là delle vanità politiche e delle cronache occasionali. È ora di vedere queste persone per quello che sono: esseri umani che meritano rispetto, tutela e condizioni di vita dignitose.
