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La barca, il mare e... quei turisti stanziali

3 minuti di lettura

C’è una barca abbandonata su un tratto di mare bellissimo. Sta lì, piegata su un fianco come un vecchio che non ha più voglia di rialzarsi. Il vento le soffia addosso sterpaglie secche, le onde, quando il mare è agitato, sembrano chiamarla, ma lei non risponde più. Rimane a terra, come un relitto della nostra stessa cultura.

L’altra sera, in una di quelle sere d’estate in cui l’afa ti toglie il respiro e la chiacchiera prende il sopravvento, ho parlato con uno storico proprietario di una seconda casa. Il classico "turista stanziale partenopeo". Uno di quelli che arrivò qui, a Corigliano, a Rossano, nella Sibaritide, agli inizi degli anni ’80, comprò casa per scappare dal caos della Campania, da quel “colera delle tensioni” che attanagliava Napoli e per esorcizzare la stagione dei terremoti.

Quando pensiamo al napoletano – perché per noi i campani sono tutti napoletani, sbagliando – ci viene in mente quell’immagine caricaturale: chiassoso, invadente, spilorcio (che si porta persino il pane da casa), scontroso, esagerato, neomelodico... Insomma, il tamarro.

Ma quella chiacchierata mi ha scardinato dentro. Non perché mi abbia tolto di dosso quel pregiudizio che, un tempo ho avuto anche io e che poi ho cancellato con consapevolezza, ma perché mi ha fatto capire altro. Mi ha dato risposta ad una domanda quasi esistenziale: perché un cittadino campano dovrebbe continuare a venire qui, in una terra dove spesso non c’è nulla? Dove il degrado urbano alle volte sembra ti si appiccichi addosso, dove l’acqua scarseggia ogni giorno, dove le spiagge vengono rabberciate alla meglio come ferite rattoppate con cerotti vecchi, dove l'abusivismo continua ad essere silentemente e omertosamente tollerato, dove basta il minimo indispensabile a vivere. 

Oggi non arriva più il campano povero, con famiglie numerose e disoccupazione cronica. La Campania è diventata una delle regioni più evolute d’Europa, con i suoi drammi come ogni terra del Sud, ma con passi da gigante per riscattarsi. Grazie a cittadini che hanno scelto di cambiare passo, e grazie – sì, anche – a una politica che a un certo punto ha capito che bisognava fare sul serio. Oggi la Campania è un tesoro turistico, culturale, paesaggistico, economico: dal Cilento alla Baia Domizia, dall’Appennino a Bacoli, da Capri a Ischia alla Costiera Amalfitana, passando per Napoli che è tornata a risplendere come un diamante.

E allora, perché continuano a venire qui? «C'abbiamo la casa. E poi c’è un mare bellissimo». E poi? E quindi? «E ti pare poco?»

C’è tutta una filosofia di vita in queste parole. La filosofia di chi vive le bellezze della propria terra, la propria casa, la propria "napoletanità" con orgoglio e può permettersi di frequentare luoghi incantevoli, che non sono certo low cost, ma col pensiero di tornare a svernare qui. Perché? Perché qui ci accontentiamo del poco. Perché qui non abbiamo ancora capito di che pasta è fatto il mondo.

Non abbiamo capito che la valorizzazione non passa solo dall’aumento dei prezzi – su questo siamo maestri – ma dalla capacità di offrire esperienza, di coccolare chi arriva. Un turista può pagare anche 7 euro un gelato o un cocktail, ma oltre alla freddezza dei soldi... non resta nulla, non resta l'emozione, non resta la nostalgia del ritorno.

Ed è così che i “turisti stanziali campani” nei nostri bar entrano sempre meno. Alcuni arrivano qui e si aprono le loro attività stagionali. E noi continuiamo a salassare quelli che ci passano per scelta o per caso… e che poi non tornano più.

Se sapessimo fare turismo, se costruissimo una cultura della destinazione esperienziale, se capissimo che il profitto non è solo incasso immediato ma un percorso che parte dalla bellezza per arrivare al benessere collettivo, oggi saremmo già pronti a raccogliere i frutti del nostro patrimonio straordinario. Ma continuiamo a non saperlo fare. Perché siamo egoisti nel coltivare solo il nostro orticello.

Siamo come quella barca abbandonata su un tratto di mare bellissimo.

Lo stesso mare che il “turista stanziale” vive ogni estate, consapevole che – siccome è lì ed è scollato dal contesto – può anche sopportare la vista di un relitto a pochi metri dalla battigia. Quella barca arrugginita diventa quasi un quadro decadente, un orpello malinconico, un pegno da pagare per vivere in questa terra sonnambula, dolce e disperata.

Ma quella barca siamo noi. È la nostra mentalità. È la nostra oicofobia: quella paura retrograda di noi stessi, quella cultura omertosa che ci impedisce di sentirci collettività.

Finché ci sentiremo cellule singole, isolate, saremo tutti in pericolo. Ma se iniziassimo a sentirci corpo, un unico corpo vivo e pulsante, allora tutto cambierebbe.

E forse, un giorno, quella barca non ci sarà più. Smantellata dall'orgoglio di aver vinto il pregiudizio. Quel pregidizio alimentato da noi stessi

Marco Lefosse
Autore: Marco Lefosse

Classe 1982, è schietto, Idealista e padre innamorato. Giornalista pubblicista dal 2011. Appena diciottenne scrive alcuni contributi sulla giovane destra calabrese per Linea e per i settimanali il Borghese e lo Stato. A gennaio del 2004 inizia a muovere i passi nei quotidiani regionali. Collabora con il Quotidiano della Calabria. Nel 2006 accoglie con entusiasmo l’invito dell’allora direttore de La Provincia, Genevieve Makaping, ad entrare nella squadra della redazione ionica. Nel 2008 scrive per Calabria Ora. Nell’aprile 2018 entra a far parte della redazione di LaC come corrispondente per i territori dell’alto Jonio calabrese. Dall’1 giugno del 2020, accoglie con piacere ed entusiasmo l’invito dell’editore di guidare l’Eco Dello Jonio, prestigioso canale di informazione della Sibaritide, con una sfida: rigenerare con nuova linfa ed entusiasmo un prodotto editoriale già di per sé alto e importante, continuando a raccontare il territorio senza filtri e sempre dalla parte della gente.