Le morti che non fanno rumore
Novembre 12 - Ottobre 25. In 13 anni non è cambiato nulla: i braccianti stranieri restano carne da macello. Nelle fasi disperate dei conflitti, in prima linea si inviano i sacrificabili: loro sono i sacrificabili della nostra guerra per il benessere

Tredici anni dopo, siamo ancora qui a contare i morti. Erano romeni nel 2012, sono pakistani nel 2025. Ma il luogo, la miseria e la dinamica sono le stesse. E la tragedia, ancora una volta, è partita da Corigliano-Rossano, cuore di un territorio che ormai offre solo lavoro a basso costo, zero sicurezza, e produce ricchezza per pochi e zero dignità. Tutto questo mentre i nostri giovani scappano per non tornare più.
Sabato 4 ottobre, sulla Fondovalle dell’Agri, a Scanzano Jonico, quattro uomini hanno perso la vita e altri sei sono rimasti feriti in un incidente spaventoso. Dieci persone stipate in un’auto che tornava dai campi. Tredici anni fa, a Rossano, sei braccianti romeni morirono travolti da un treno mentre rincasavano dopo aver raccolto clementine.
Due stragi che raccontano la stessa vergogna: qui da noi si continua a morire lavorando, e peggio ancora, tornando dal lavoro.
Non è questione di colore della pelle o di nazionalità. È questione di Stato, di responsabilità collettiva, di giustizia sociale.
Perché chi lavora nei campi di questa terra – che sia italiano, romeno o pakistano – è un lavoratore della Repubblica. E la Repubblica, lo dice la Costituzione, “è fondata sul lavoro”. Ma se il lavoro uccide, allora è la stessa Repubblica che si sta smantellando pezzo dopo pezzo. Ma del resto, anche se senza fucili, bombe, mine e cannoni, anche qui si sta combattendo la più cruenta delle guerre: quella per il benessere. È silenziosa e infida, non fa rumore ma uccide comunque. E in guerra - si sa - quando le cose si fanno critiche, in prima linea si mandano i "sacrificabili". E i sacrificabili di questo nostro conflitto sociale e civile sono i braccianti a basso costo. Carne da macello per fare polpette da dare ai cani.
Il dramma non sta solo nelle morti clamorose, ma nelle morti silenziose, in quelle decine di uomini e donne che perdono la vita ogni anno sulle strade, a piedi, in bici, su un furgone sgangherato.
Secondo l’INAIL, nel 2024 oltre mille persone sono morte in Italia per incidenti sul lavoro. In agricoltura, un aumento del 20% rispetto all’anno precedente. È il segno di un sistema che non garantisce più la sicurezza di chi produce, di chi semina, di chi raccoglie.
Eppure, in Calabria e in Basilicata, i controlli ci sono. Ci sono i sindacati, che denunciano da anni il caporalato e le condizioni disumane nei campi. Nel nostro caso c’è la Procura di Castrovillari, che ha aperto fascicoli, fatto arresti, smascherato reti di sfruttamento. Ci sono le forze dell’ordine che ogni giorno presidiano, indagano, verificano. Ma non basta.
Perché il problema non è solo penale. È culturale. È politico. È nazionale.
Da troppo tempo l’Italia ha smesso di considerare il lavoro agricolo come lavoro strategico, lo ha relegato ai margini, affidandolo ai più deboli, a chi accetta tutto pur di sopravvivere. Eppure è da quei campi che nasce il cibo che mettiamo sulle nostre tavole, è da quelle mani che passa la qualità che esportiamo nel mondo.
Non può esserci sovranità alimentare se non c’è sovranità del lavoro. Non può esserci “Calabria straordinaria” se chi la fa vivere muore su una strada statale o su un binario.
Oggi, più che mai, serve una politica del lavoro che rimetta al centro la persona e la sicurezza, che investa in trasporti dedicati, in controlli veri, in ispezioni costanti, in formazione, in legalità. Serve uno Stato che non deleghi ai privati la vita dei lavoratori, ma che la protegga, la tuteli e la onori, come patrimonio nazionale.
Perché il lavoro, in questa terra, deve tornare a essere orgoglio e non sacrificio, opportunità e non condanna.
E se ogni volta che muore un lavoratore, l’Italia abbassa la testa, vuol dire che è giunto il momento di rialzarla, questa testa.
Per rispetto di chi ha costruito questo Paese, e di chi ancora oggi, nel silenzio dei campi, continua a farlo vivere.