Qui si nasce già con la valigia in mano: siamo senza prospettiva
Relegati mentalmente in una platonica caverna, ormai non vediamo più nulla. I nostri giovani partono per non tornare mai più e gli effetti devastanti di questo fenomeno si leggono nella nostra mentalità ormai chiusa e gretta
Il giorno in cui si celebrò il referendum per la storica fusione di Corigliano e Rossano, domenica 22 ottobre 2017, nelle allora due città della Sibaritide erano iscritti all’anagrafe, complessivamente, 77.176 cittadini. Oggi, a distanza di sette anni, nell’anagrafe ormai congiunta, di iscritti ce ne sono 74.226 (dati anagrafici Istat): quasi 3mila cittadini in meno (2.950 per l’esattezza). Poca cosa, si dirà; ma è un dato allarmante per chi si intende di statistiche e soprattutto per chi è chiamato a programmare servizi e a dare una visione a questo territorio.
Ci sono due dati emblematici che preoccupano più di tutti. Uno riguarda le nascite che vedono un deficit complessivo di meno 120 unità in sette anni, con un rapporto nascite/morti in passivo di 141 unità nel 2021 (ci sono stati più decessi che nuovi arrivi con un trend in crescita); l’altro è quello dei cambi di residenza con oltre mille persone che in questo lasso di tempo (dal 2017 al 31 dicembre 2023) si sono trasferite altrove.
Insomma, viviamo in una città dove ormai ci sono sempre meno nascite (sono pochi i giovani che decidono di mettere su famiglia) mentre le generazioni di coriglianorossanesi comprese tra i 18 e i 50 anni decidono sempre più spesso di emigrare e andare via. Quel che è peggio, però, è che anche nelle giovani coppie resilienti e resistenti di Corigliano-Rossano ormai si è insinuata la consapevolezza di mettere nel corredo dei nascituri una valigia che useranno non appena avranno compiuto i 18 anni con un biglietto di sola andata.
C’è solo una risposta a questo fenomeno, comune in tutte le regioni del sud ma che nel nostro territorio ha un’incidenza di gran lunga maggiore: a Corigliano-Rossano e nella Calabria del nord-est in generale manca una prospettiva.
Cosa faremo, cosa saremo da qui ai prossimi dieci anni? Nessuno lo sa, nessuno programma, nessuno vede oltre l’orizzonte. E questo, purtroppo, è il fardello più pesante che siamo costretti a portare. Fanno ridere – sia consentito – le polemiche imbastite negli ultimi tempi anche da noi operatori dell’informazione. Sono ridicole per il semplice motivo che producono esclusivamente uno “scannamento” tra le mura di casa che non giova a nessuno. E non giova soprattutto ai giovani.
Province, aree vaste, autonomia… sono argomenti vaghi, quasi superflui se qui – per prima cosa – non si acquisisce la consapevolezza di quello che si è.
Oggi vivere a Corigliano-Rossano o nella Sibaritide o nel grande arco jonico calabrese è come vivere in quella caverna di platonica memoria: si vive al buio, con una serie di ombre che vengono proiettate dall’esterno, ma quello che c’è fuori da questa caverna non lo conosce più nessuno. E non si conosce perché quanti dovrebbero portare i feedback esterni non lo fanno più.
Un tempo, finite le scuole superiori, si andava all’università, si conseguiva la Laurea e la prospettiva era quella di mettere a frutto le conoscenze e le esperienze acquisite in anni trascorsi nelle città universitarie, nella propria terra di origine. E da qui, grazie a queste esperienze, si sono innescati processi sociali importanti che hanno portato a una crescita e all’emancipazione della nostra popolazione. Oggi quell’interscambio di contenuti ed esperienze non c’è più. Perché un giovane diplomato quando decide di andare all’Università — che sia a Milano, Roma, Torino, Bari, Napoli o nella stessa vicina Cosenza — parte con la convinzione di non ritornare più. Perché qui non c’è futuro, né prospettive per il domani. E venendo a mancare questo ritorno essenziale, non solo in termini demografici ma anche e soprattutto sul piano culturale di sapere e conoscenza, si rimarrà sempre meno ma si continuerà a parlarsi addosso, a scaricarsi accuse reciproche, a ragionare su cose che sono passate e trapassate. Oggi si parla (ancora) di nuove province. Ma chiediamoci a cosa dovrebbe servire davvero una provincia se ci fossero strade, treni, una sanità qualificata ed efficiente e, più in generale, servizi degni di un territorio pienamente europeo. Non ne sentiremmo l’esigenza di una nuova provincia, se non per un pennacchio!
Ecco perché queste discussioni sono solo armi di distrazione di massa. E di questo ne rimango – personalmente – sempre più persuaso. Fronti di discussione tra chi continua a vivere in quella caverna e ormai non agogna nemmeno più di vedere la luce. Ci scanniamo sul nulla quando, invece, dovremmo riappropriarci di quella autorevolezza che non è più nostra. Vediamo nemici ovunque, non c’è crescita e emancipazione. Abbiamo una mentalità che continua a viaggiare in analogico quando il mondo ha addirittura oltrepassato i confini del digitale e viaggia nel metaverso.
Ma davvero il nostro confine può essere Castrovillari, Crotone, Tarsia, il Crati? Siamo cittadini del mondo e - anche se ci sentiamo confinati in noi stessi perché abbiamo perso persino il coraggio di andare avanti – dobbiamo prendere consapevolezza che il futuro sta solo ed esclusivamente nelle nostre mani. Così come nelle nostre mani c’è il presente e c’è stato anche il passato. Siamo noi, solo noi, artefici del nostro destino. Nessun altro. E se presto non avremo il coraggio di cambiare il nostro modo di agire, ci ritroveremo decimati da una faida interna che non lascerà vivo nessuno, perché verremo massacrati dall’avanzata inesorabile e fragorosa dell’avvenire.