Le vicende di Taranto ci insegnano cosa (non) è un’industria pesante
Le vicende che si stanno sviluppando attorno la vertenza annosa delle acciaierie pugliesi, così vicine geograficamente eppure lontane anni luce dalla nostra percezione, ci insegnano tante cose che ci ostiniamo a non vedere
Le vicende che si stanno sviluppando attorno la vertenza annosa delle acciaierie di Taranto, così vicina geograficamente eppure lontana anni luce dalla nostra percezione, ci insegnano sostanzialmente due cose.
La prima. Il lavoro è un patrimonio essenziale e irrinunciabile per ogni cittadino, va difeso e preservato insieme ad un altro valore imprescindibile: la salute
La seconda. L’industria non è tutta uguale e non è uguale dappertutto. A Taranto ci sono acciaierie e raffinerie tra le più grandi d’Europa, c’è la chimica pesante, distruttiva, dannosa, che andrebbe archiviata il prima possibile o comunque resa innocua per la popolazione.
Il blitz dei carabinieri del NOA di Lecce nelle fonderie della ArcelorMittal dicono che qui, al Sud, si continua a lavorare al limite della possibilità di vita. L'inchiesta pone al centro i livelli di benzene, composto chimico ritenuto cancerogeno. Nelle scorse settimane sono stati registrati dei picchi finiti all'attenzione di Arpa e Asl e poi della magistratura, anche se non risultano superati i valori soglia fissati dalla norma, ovvero 5 microgrammi per metro cubo d'aria come media annuale. Saranno stati i metodi “indiani”, che tanto sono piaciuti ai governi pentastellati, ad aver accelerato questo processo di inquinamento mortale in un contesto già compromesso? Sarà la magistratura a chiarirlo mentre la coscienza ci dirà chi sono stati i mandanti morali di quell'accordo.
Resta però il problema occupazione di migliaia di persone (e famiglie) che vivono grazie a quell’industria (pesante). Che uccide per quanto produce. Tanto.
E ora andiamo a noi, nel microcosmo della Sibaritide. Perdere un posto di lavoro ben retribuito è una mannaia per chi, donne e uomini lavoratrici e lavoratori, si “arrabbatta” come può per arrivare a fine mese e vivere agognando la dignità. L’esatto contrario di quanti, poltronieri, parlano e sparlano senza sapere nemmeno cosa dicono in nome di una verità inesistente. Perché anche un solo posto di lavoro in più, garantito con diritti e doveri, in un territorio che scappa, è una manna dal cielo.
I riflettori accesi su Taranto, dicevo, ci insegnano a capire cos’è l’industria pesante. In tutti i suoi risvolti. Ma soprattutto a comprendere cosa non è. L’industria pesante è tanto lavoro in cambio di tantissimo inquinamento, è compromissione assoluta di ogni altra vocazione. Anche se proprio Taranto ed il suo porto, nonostante le acciaierie, nonostante le raffinerie sono riusciti a diventare da un paio d’estati a questa parte, l’hub crocieristico dello Jonio.
Davvero un’acciaieria può essere messa a paragone di un’industria metalmeccanica? Non è paragonabile né nei numeri di posti di lavoro che produce, né per il fatturato; ma nemmeno per impatto ambientale e per interferenza economica e commerciale. Possibile che una stazione di assemblaggio e verniciatura di pezzi metallici, per dirla in modo brutale, in un porto, può competere nel bene e soprattutto nel male con un altoforno che mischia metalli e produce acciaio?
Ci sta il preconcetto e il sospetto. È giusto, in una visione di paura senza chiarezza e senza concertazione. Ma non può starci il pretesto dell’ambiente. Semplicemente perché non esiste un reale appiglio logico. Almeno non esiste nelle percentuali di inquinamento che vengono predicate da più parti, con il solo intento di incutere paure e terrore tra la popolazione.
Nessuno si è chiesto fino ad oggi cosa viene movimentato da anni nel porto di Corigliano-Rossano e quali danni (anche visivi) producono all’ambiente quelle tonnellate di ferraglia e rottami che si accumulano sulla banchina 1. È un argomento che non interessa a nessuno. Perché? Non è un potenziale inquinatore anche quello?