«Qui non c’è nulla»: sfoghi di fine estate contro una generazione che ripudia sé stessa
Antimeridionalismo interiorizzato, oicofobia, insoddisfazione: il ritorno dei fuori sede coincide con una crociata contro la loro indole, il loro accento, le loro tradizioni
CORIGLIANO-ROSSANO - Nel 1870 dall’autopsia fatta da Cesare Lombroso sul cranio di un detenuto calabrese si scoprì una singolare fossetta occipitale. Nasce da un pretesto abbastanza maccheronico la presunta “diversità” del meridione, e dato che l’idea altro non è che un virus che si trasmette, si fissa ufficialmente nella neonata nazione italica la prova provata della diversità biologica.
La propaganda settentrionalista è stata a tratti asfissiante: sud come palla di piombo alle caviglie dell’Italia, il brigantaggio come vulnus criminale e il malcontento contadino. Sostanzialmente ci hanno convinti di essere sbagliati, di essere “diversi”, di essere mancanti.
Un esempio alquanto lampante è quando si usano etichette come Cosenza la Milano del Sud, oppure Rossano la Ravenna del sud. Ma che senso ha? Che termine di paragone è? Perché sentirsi così inferiori?
L’estate è la stagione dei ritorni, i fuori sede (ora si chiamano così, non emigrati) tornano al sud per riconciliarsi con le radici e staccare dopo mesi di freddo, nebbia e orari di otto ore che puntualmente sforano verso le dieci e oltre. Ho notato, però, un profondo cambio di registro nell’interiorità dei miei coetanei.
Vi è una profonda allergia per la propria terra, una loffa quando si parla di restare due settimane, insomma un’intolleranza e un’insoddisfazione latente. In sostanza vedono la terra di origine come una matrigna, loro ce l’hanno fatta chi è restato no, è solo qualcuno che si è fatto fregare dalla nostalgia. Per molto il nord è più civile, il sud è un posto di barbari in cui esistono solo processioni, tradizioni e piatti da mangiare. Tecnicamente questo atteggiamento ha un nome (portato avanti e “denunciato” dal professore di Storia delle Dottrine politiche dell’Unical, Spartaco Pupo, che oggi alle 18.30 presenterà l'ultimo libro "Il ripudio della nazione" presso l'auditorium Amarelli) ed è Oicofobia (paura di casa) o antimeridionalismo interiorizzato. Il dialetto è una colpa e si deve addolcire abbozzando un improbabile milanese. Nei casi più estremi si prova vergogna anche per il proprio nome, per buona pace per nonna Maria, Achiropita o Rosa. Insomma, luglio e agosto terra mia non ti conosco.
Tutto questo ha una risposta: quando non sappiamo nulla di noi stessi altro non facciamo che cercare modelli, abbiamo il bisogno spasmodico di paragonarci. Purtroppo il problema è sempre lo stesso: se non si conosce qualcosa non si può amare, e molti non conoscendo la propria terra non possono amarla, non hanno gli strumenti. Tutto si riduce al “non c’è nulla da fare” mentre ci sarebbe da vivere, non c’è nulla da consumare mentre ci sarebbe da conservare.
In conclusione, un ragionamento in cui mi vengono incontro due personaggi. Rimbaud, squisito poeta maledetto francese, dopo una vita di vizi stroncata a 37 anni dai suoi stessi eccessi, dopo aver girato il mondo come un battello ubriaco scrisse: “ho navigato tutti i mari del mondo, ma nulla è come la pozzanghera davanti casa mia”. Il secondo, eroe per antonomasia, è Ulisse che ogni notte per sette anni - dopo essersi unito con Calipso - andava a piangere puntualmente da solo sulla spiaggia di Ogigia in direzione di Itaca. Gli mancava casa e gli mancava Penelope. Ciò cosa significa? Che l’uomo è abitato dall’istinto di partire, per poi tornare nella casa che si sceglie che è – sempre - quella dei ricordi, quella “con cui insieme hai avuto freddo”. Significa che a fianco alla parola partenza ci devono essere le parole “restanza” e tornare, perché poterlo fare è anch’esso un diritto e, a tratti, un dovere.