Le donne, le guerre e la faticosa conquista di diritti e libertà
Dall’Italia alla Calabria, dalle donne entrate nei libri di storia, alle donne comuni, dalle partigiane alle raccoglitrici di olive, il lungo cammino verso una parità di genere che ancora ha tanti passi da compiere
Le pandemie sono anche un laboratorio di riflessione e di analisi su processi sociali, economici, politici e culturali che ci possono sembrare consolidati, ma invece vengono messi in discussione o quanto meno rivisti. Hanno un impatto penetrante su milioni di persone, sulle dinamiche sociali e di genere. In una pandemia le disuguaglianze sociali aumentano, come anche quelle di genere, nonostante le conquiste civili e politiche che nei decenni passati molte donne hanno raggiunto, soprattutto nel XX secolo.
Il Novecento per molti aspetti è stato infatti il secolo delle donne, molte di loro sono riuscite ad abbattere alcuni degli ostacoli che le separavano dalla partecipazione attiva alla vita civile e politica. In molte realtà nazionali, tra fine Ottocento e inizi Novecento, la tenacia e la volontà le hanno portate a creare ponti e reti internazionali di sensibilizzazione sulla questione femminile. Non è stato certamente un percorso facile, ma contrassegnato da accelerazioni, confronti, scontri, da bruschi e duraturi passi indietro.
Paradossalmente sono stati proprio i due conflitti mondiali a dare un’accelerazione forte alle questioni di genere in molte realtà nazionali. Tra il 1914 e il 1918 milioni di donne diedero un attivo contributo alla mobilitazione economica e sociale che la guerra richiedeva ai singoli Stati in lotta, innescando una mobilità di genere per quegli anni sorprendente e originale: donne al fronte, negli eserciti, nel volontariato, nel lavoro in fabbrica e nelle occupazioni civili, nella gestione delle famiglie e delle proprietà, nelle proteste contro la guerra e il caro viveri.
Gli anni tra il 1914 e il 1918 rappresentarono infatti la prima occasione, ad esempio per milioni di italiane, di partecipare alla vita della nazione attraverso la mobilitazione economica e politica, l’assistenza civile, il lavoro, il volontariato o la protesta pubblica; un vero e proprio apprendistato politico, sociale e culturale, che in alcuni casi ebbe anche una continuazione nel primo dopoguerra. Fu una partecipazione che non riguardò solo le donne appartenenti ai ceti sociali più agiati, ma anche “donne comuni”, che misero al servizio delle proprie comunità competenze e abilità, non per forza accompagnate da un titolo di studio, ma caratterizzate da un impegno pratico.
Non significa però che queste donne sostenessero posizioni favorevoli alla guerra, anzi molte provenivano proprio da quei settori sociali che nei dieci mesi di neutralità italiana si erano schierati contro. Però il loro contributo fu certamente fondamentale a sostenere, anche indirettamente, lo sforzo bellico, come dimostrava la fondamentale opera nell’assistenza sociale e civile. Spesso il loro “silenzio” venne interpretato come un sostegno alle posizioni dell’interventismo politico delle élites o quanto meno come una pietas che fungeva da risorsa sociale e mentale della guerra. Con la guerra milioni di donne si ritrovarono a vivere un momento di rottura delle barriere, delle regole sociali, dei modelli di comportamento e delle relazioni di genere: «as a genuinely liberating experience». La loro mobilitazione assumeva per molti aspetti caratteri prepolitici, manifestazioni che non potevano essere ridotte infatti al rango di reazione istintiva e primordiale; le portava ad occupare luoghi e spazi pubblici egemonizzati di solito dagli uomini, mutuando da questi ultimi simboli e discorsi, rendendole protagoniste della nuova modernità generata dalla guerra, seppur tragicamente.
La Prima guerra mondiale permise, ad esempio, a molte donne in Calabria di guadagnarsi un ruolo diverso da quello di custode del focolare, svolgendo tra il 1915 e il 1918 mansioni utili alla comunità e conquistando un’affermazione pubblica proprio grazie alla mobilitazione, alla protesta e al lavoro svolto. Anche a livello economico e produttivo le donne, contadine e proprietarie, occuparono spazi che fino ad allora erano stati egemonizzati dagli uomini, dimostrando capacità organizzative, di gestione e produzione, tanto elevate da ricevere dalle stesse autorità riconoscimenti e premi.
Proprio sulle donne negli anni di guerra pesò infatti il mantenimento della famiglia, soprattutto di bambini, di vecchi, di soldati malati o inabili. Carmela Bruno di Morano, un paese in provincia di Cosenza, era moglie di un soldato richiamato, nel 1917. Anche in assenza del marito era riuscita a coltivatre 100 are a grano in contrada Campizzo, 96 di granone, fagioli e patate a Campotenese, 24 di granone e fagioli in contrada Pantano, 16 a vigna in contrada Crancia, 40 a vigna in contrada Vallina e altre 16 a vigna nei pressi di Castrovillari. Inoltre aveva prodotto un’oncia e mezzo di baco da seta e raccolto olive. Un’altra moranese, Maria Severini, anch’essa moglie di un richiamato, aveva coltivato 128 are a grano e patate in contrada Pavole, 64 a grano in contrada Collo, 20 a grano in contrada Calcinaia, 32 a vigne in contrada Crocefisso e 16 di nuovo a Calcinaia. Invece Fortunata Colosimo, con una famiglia di otto persone da sostenere e due uomini al fronte, badava a 4 vacche e 600 pecore; Antonia Fuoco badava a 6 bovini e 50 ovini, oltre ad accudire un nucleo famigliare formato da dieci persone. Nel comune di Parenti, sempre in provincia di Cosenza, 49 mogli di soldati richiamati, avevano lavorato nei campi per tutto l’anno garantendo zappatura, semina, sarchiatura, raccolto e allevamento animali.
Alla fine del conflitto questa mobilità di genere in molti Stati subì una brusca ritirata-frenata, in altri venne valorizzata concedendo a centinaia di donne il diritto al voto. Nel programma del partito popolare sturziano e nella Carta del Carnaro venne inserito il diritto di voto alle donne. Anche il fascismo, forse più per propaganda che per convinzione, sembrò orientato, agli inizi degli anni Venti, verso scelte simili almeno sul versante amministrativo, ma a prevalere durante gli anni della dittatura fu l’iconografia di una donna inserita all’interno della gerarchia patriarcale, angelo del focolare, moglie fedele e madre prolifica di figli destinati alla morte nei campi della guerra d’Etiopia e del secondo conflitto mondiale.
Proprio il secondo conflitto mondiale però fu la culla dove alcuni semi, nonostante il lungo inverno delle dittature e del totalitarismo, riuscirono a germogliare. In Italia, ad esempio, centinaia di donne furono parte integrante nella lotta partigiana, con la loro testimonianza accompagnarono l’Italia verso la libertà e la democrazia, questa volta più matura rispetto al passato, più attenta alle questioni di genere, come dimostrava il voto del 1946 a suffragio universale femminile. La Resistenza fu infatti la premessa definitiva dell’ingresso in Italia delle donne nella vita politica. Nilde Iotti e Tina Anselmi rimangono certamente i due profili più significativi a livello nazionale, le loro storie, avvincenti e meritevoli, sono esemplificative di questi tortuosi e complessi cambiamenti. Ma la Calabria in quegli anni aveva anche le sue partigiane impegnate al nord nella lotta contro il nazifascismo. Mi vengono in mente le vite partigiane di Nina Tallarico e Anna Cinanni. In alcuni casi nominarne alcune potrebbe significare dimenticarne altre. La Tallarico, nata a Marcedusa in provincia di Catanzaro, da neolaureata in medicina si impegnò nella banda partigiana del fratello nel curare feriti e malati, prestando soccorso anche agli eventuali prigionieri nazifascisti. Anna Cinanni di Gerace Superiore, dopo essersi trasferita a Torino, fu attiva nella resistenza clandestina e poi in quella partigiana. Frequentò Elvira Pajetta, Leo Lanfranco, Giovanni Guaita, Cesare Pavese e Ludovico Geymonat. Con il nome di battaglia di Cecilia, la Cinanni, fu un’attiva staffetta partigiana, subì il carcere e le violenze dei nazifascisti, per poi avere ruoli di primo piano nell’Italia repubblicana.
A proposito di Italia repubblicana, anche la Calabria ebbe le sue “madri della Repubblica”, impegnate a far radicare la democrazia nei territori. Basti pensare a Caterina Tufarelli Palumbo, primo sindaco donna dell’Italia democratica. L’elenco, come dicevo, potrebbe essere lungo, ma anche ingiusto. Queste donne, anche se spesso in ritardo, sono entrate nei libri di storia. Ma non dimentichiamo che la storia dei diritti e delle libertà ha spesso strade tortuose e non istituzionali, carsiche, silenziose e spesso dimenticate. Lungo queste strade si sono incrociate le migliaia di raccoglitrici di olive di questo territorio, che hanno lottato, sofferto e protestato contro angherie e sfruttamento. Donne comuni che meritano di entrare nei libri della storia, perché protagoniste di lotte che hanno reso il lavoro delle donne più dignitoso e rispettato.
Un percorso che non può dirsi ancora oggi pienamente compiuto, nemmeno nel 2022, sebbene di strada ne sia stata fatta tanta; negli anni della libertà e della democrazia si è seminato e raccolto bene, anche in terreni dove a prevalere non era sempre la parità di genere. Ma forse questa storia fatta di tanti sacrifici e anche successi deve parlare ancora all’oggi, alle donne e agli uomini del domani, affinché la semina e il raccolto siano condivisi da entrambi i sessi e anche le lotte e i traguardi siano patrimonio di tutti. Soprattutto in una pandemia riflettere su questi aspetti ci dovrebbe rendere cittadine e cittadini più consapevoli di come le libertà e i diritti siano una meta importante, da difendere e allargare anche in emergenza.
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