Partire, Restare, Ritornare
Il Corsivo di Giuseppe Sommario sui vari sensi del ritornare e la necessità di riportare la marginalità al centro attraverso uno sguardo invertito che sappia trasformare le fragilità in punti di forza e ridare polpa all’osso dell’Italia
I luoghi sono organismi viventi che mutano senso e significato a seconda della presenza o della non presenza dell’uomo. Tutti noi abbiamo luoghi sacri che amiamo perché ad essi sono legati ricordi, emozioni, storie personali e collettive. Io che sono nato e cresciuto in un piccolo centro presilano, ho una particolare predilezione per i paesi dell’entroterra, quelli che appartengono all’osso d’Italia (contrapposto alla polpa delle pianure e delle città), secondo la celebre definizione di Rossi Doria. Sono i paesi delle aree interne, un tempo grondanti di vita e oggi largamente disabitati a causa delle tante partenze: l’emigrazione che un tempo, grazie alle rimesse, ha permesso lo sviluppo e la rifondazione di intere comunità, oggi è uno dei nomi dell’abbandono, e della fuga. Restano pochi abitanti, case vuote, vicoli silenziose, tante storie che aspettano di essere raccontate. Le storie di chi è partito, ma anche di chi è rimasto, perché in fondo anche chi resta si sperde e si spaesa, anzi, come dice Vito Teti, «lo spaesamento più inquietante, più “perturbante”, è quello vissuto nei luoghi che ti sembrano familiari». Chi parte infatti resta legato al luogo d’origine che cerca di riprodurre altrove, in un doloroso processo di ridefinizione identitario, che investe necessariamente anche chi resta, costretto a fare i conti con un’assenza sempre presente. Spartiti e rimasti: le due comunità non potranno mai più ricongiungersi come prima, ma neanche mai separarsi. E allora credo sia necessario raccontare le storie di spartenze, abbandoni e restanze, non solo perché, come dice Teti, sono gli ultimi miti di un mondo che cambia assai rapidamente e che forse si perderà per sempre, ma anche perché sono convinto che una via di salvezza per i paesi abbandonati possa essere il ritorno dei propri emigrati, o dei loro figli. Ed allora vorrei per così dire sostenere le ragioni del “ritornare”, partendo da alcuni interrogativi-guida.
Cosa si intende per “ritornare”? Dove, a chi o a cosa ritornare? È possibile imparare, praticare e tramandare l’arte del ritorno? E, nel caso degli emigranti, è possibile ri-tornare nel luogo della radice prima, nel luogo in cui con la mente e con il cuore (tenero) essi tornano tutti i giorni, proprio come i naviganti che a ogni tramonto volgono mente e disio alla casa, agli odori, agli amori lontani? E ancora, dopo un anno e mezzo di pandemia, è possibile ritornare alla normalità? E le aree interne, quelle dell’osso, possono ritornare a godere veramente della polpa antica? E se sì, come?
Di fatto, come desiderio, come ipotesi, illusione, monito, come mito il ritorno è iscritto sin dal momento della partenza nel progetto dell’emigrante. Chi parte, infatti, ha sempre come orizzonte la possibilità di ritornare a casa: partire, guadagnare, fare esperienza, trovare il proprio posto nel mondo, ma poi tornare nel paese d’origine, per chiudere il cerchio, e compiere così il viaggio perfetto. Le tante storie migranti ci dicono che si può ritornare (e anche in forme diverse), ma basta un punto interrogativo-esclamativo (ritorno?! ritorni?!) per rendere il ritorno molto difficile, per trasformare il tutto in una domanda che tormenta ogni giorno sia l’anima sia degli “spartiti”, sia quella dei “rimasti”.
Ritorni possibili, ritorni sognati, ritorni negati. Ritorni 2.0, ritorni a costo zero, ritorni impossibili. La speranza che si sta facendo largo in questi ultimi anni è che i discendenti degli italiani residenti all’estero, praticando una forma di turismo assai particolare come il Turismo delle radici, possano compiere il sogno dei loro padri e quello di Dante: ritornare, sia pure per un tempo transitorio, nel luogo in cui tutto è nato. Una speranza che si innesta e alimenta altre speranze come quelle di ridare polpa alle aree dell’osso che sono quelle maggiormente colpite dall’emigrazione. Paesi che forse, oltre a essere possibili mete di ritorni alle origini, possono essere luoghi in cui poter ritornare a vivere, possono essere spazi di “resistenza”, dove creare nuove identità comunitarie fatte di restanze, partenze, ritorni e nuovi arrivi. Ciò sarà possibile, a patto che si inverta lo sguardo: solo uno “sguardo invertito” (Manifesto per riabitare l’Italia) è capace di portare la marginalità al centro, permette di cogliere il senso dei luoghi, di guardarli da vicino e contrapporre, come vorrebbe Morin, la localizzazione alla mondializzazione. Uno sguardo invertito che generi più localizzazione e che deve trovare accoglienza presso i politici, gli attori territoriali e le stesse comunità. Allora si potranno guardare da vicino le fragilità dei paesi delle aree interne, e non per fuggirle, ma per trasformarle in punti di forza, proprio come Perseo, che sconfisse lo sguardo pietrificante di Medusa con ciò che c’è di più fragile: le ali.
Si spera che presto si possa imparare ad invertire lo sguardo e, diversamente da quanto fecero Farinata e “i suoi”, apprendere l’arte del ritorno. Solo uno sguardo inverso, laterale, sarà capace di (ri-)vedere la polpa antica, le tante stelle che abitano ancora l’osso dell’Italia.
Il Corsivo è curato dalla reggenza dell'Eco dello Jonio con la preziosa collaborazione della prof.ssa Alessandra Mazzei che ogni settimana offre agli utenti la lettura in forma esclusiva di contributi autentici, attuali e originali firmati da personalità del mondo della cultura, della politica e della società civile di fama nazionale e internazionale