E shtunia e t'i vdëkervet, nell'Arberia si apre una settimana carica di memoria e tradizione
Il prossimo sabato 22 febbraio in tutti i paesi arbëreshë ci celebrano i Morti. Un'antica tradizione della Chiesa Cattolica bizantina che si ripete con le sue liturgie sacre e popolari, affascinanti e ricche di mistero
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VACCARIZZO ALBANESE - Nella tradizione della Chiesa cattolica bizantina, seguita dalle comunità arbëreshë, il tempo liturgico si rivela attraverso due cicli complementari: quello solare, che scandisce le feste a data fissa, e quello lunare, che regola le celebrazioni mobili, con la Pasqua come culmine, determinata dalle fasi della luna. È un doppio respiro del tempo, in cui la linearità dell’anno si intreccia con il fluire ciclico della luna, dando vita a un ritmo sacro e circolare, evocativo dell'immagine del serpente presente nel mosaico medievale della chiesa di San Adriano a San Demetrio Corone. Qui, il tempo non si distende, ma si avvolge su se stesso, in un perpetuo rinnovarsi che ricorda l'eterno fluire degli eventi.
Il Sabato dei Morti, "E shtunia e t'i vdëkervet", appartiene al ciclo lunare, non ha una data fissa, ma varia di anno in anno, collocandosi nel periodo della prequaresima, undici giorni prima del Mercoledì delle Ceneri. È il giorno in cui il velo tra i vivi e i defunti si assottiglia, il momento in cui la memoria si fa carne, cibo, voce e preghiera.
Quest'anno cade nel cuore di febbraio, quando il freddo avvolge le case e il vento sussurra tra le strade lastricate, nei paesi italo-albanesi di rito greco-bizantino si compie questo rito antico, solenne e misterioso. Qui, tra i vicoli di Vaccarizzo, San Giorgio Albanese, Santa Sofia d'Epiro e le altre comunità arbëreshë, il tempo si piega su sé stesso e la morte si fa presenza viva, un’ombra che danza tra i ceri accesi e le voci intonano canti dimenticati dal mondo moderno.
Questa settimana che precede il sabato dei morti è un tempo di sospensione. La professoressa Rosella Librandi, memoria storica di Vaccarizzo Albanese descrive sui social la successione delle cose della settimana appena iniziata, in un crescendo rossiniano di simbolismi e delicate note d'emozione, capaci di tessere l'ordito della memoria collettiva: le campane suonano un richiamo lungo e malinconico, "mbëlik", un suono che si insinua nelle case e negli animi, ricordando ai vivi il patto invisibile con i loro morti. La chiesa, avvolta in una penombra di secoli, si riempie di fedeli. Gli uomini stanno in silenzio, le donne portano con sé il dolore di generazioni, il lutto che non si dissolve mai del tutto. Davanti all’altare, su un tavolino umile, arde la luce tremolante di tanti lumini, e nel crepitio delle fiamme si avverte il respiro del passato.
E poi c’è il canto. Due cori si affrontano da angoli opposti della chiesa, come eserciti di un tempo remoto, lanciandosi parole che risuonano nell’aria densa di commozione. Oj Zot të qosha truar! – Signore, abbi pietà di me! Una preghiera cantata come un’onda che si frange e ritorna.
Ma la memoria non si affida solo alle parole: essa si fa cibo, gesto concreto, rito quotidiano. Il grano, prima immerso nell’acqua, poi bollito nel "kussìa", viene distribuito come offerta, segno tangibile di un legame che non si spezza. I bambini, al mattino presto, vagano per il paese bussando alle porte: "Ndje Zot!" (ascolta Signore) gridano, e ricevono in cambio monete, pani, dolcetti e grano bollito. Un gioco per loro, ma un’eco d'un tempo in cui anche alcuni adulti bisognosi giravano, chiedendo un'elemosina nel nome dei defunti.
Nella mattinata del 22 febbraio, la data della commemorazione quest'anno, il Papàs, indossa i paramenti rossi ed avvolto nella nube d'incenso profumato si reca al cimitero, parola che in greco significa "dormitorio". I defunti sono addormentati nell'attesa della Risurrezione! La banda musicale intona una marcia funebre che spezza il silenzio della campagna, e mentre il sacerdote benedice le tombe, si avverte il peso della tradizione e della memoria sospesa tra la terra e l’eterno. E quando cala la sera, nelle case dei lutti recenti, si consuma un ultimo rito. Un tavolino al centro della stanza: due pani "kravele", una bottiglia di vino, una coppa di grano bollito, "la coliva" col suo senso particolare collegato alla resurrezione: il grano morendo produce frutto, è uno dei simboli della resurrezione, una la foto del defunto, e la preghiera in suffragio davanti ad un lume acceso, la "llamba", piccolo faro nell’oscurità della fine.
La morte non è un confine, ma una porta socchiusa, un respiro sospeso tra due mondi.
I defunti vegliano accanto a noi nella luce tremolante di un lume che non si spegne, sopravvivono nel ricordo e nell’amore di chi ancora li porta nel cuore.