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Il sacrificio di Stefano è l'emblema di un mondo inconsapevole

3 minuti di lettura

Recentemente mi sono trovato a conversare con un giovane che mi ha confessato il suo desiderio di riconciliazione con alcune persone che detestava. Diventato papà ha sentito un cambio profondo di prospettiva avvertendo come suo dovere contribuire a costruire per suo figlio un mondo più bello, da vivere insieme in armonia con quelli che la vita mette davanti.

La storia di Santo Stefano ricordato il 26 dicembre è narrata negli Atti degli Apostoli. Fu uno dei sette uomini scelti diaconi - infatti nell'icona di Vaccarizzo Albanese indossa i paramenti liturgici diaconali e regge l'incensiere - nei primi giorni della Chiesa primitiva. La sua predicazione suscitò l'ira delle autorità religiose dell'epoca. Accusato di blasfemia, Stefano fu portato di fronte al Sinedrio, il tribunale ebraico.

Nonostante le false accuse e la minaccia di morte, Stefano rispose con uno spirito di pace e perdono straordinari. Nel momento cruciale, mentre veniva lapidato a morte, pronunciò le parole che riflettono la più profonda essenza del cristianesimo: "Signore, non imputare loro questo peccato" (Atti 7,6).
La richiesta di perdono di Santo Stefano, anche mentre affrontava la violenza e la morte imminente, ci offre un potente insegnamento sulla natura trasformatrice del perdono. In quel momento estremamente doloroso, Santo Stefano seguì l'esempio di Cristo, che sulla croce pregò: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno" (Luca 23, 34). Entrambi questi episodi ci invitano a riflettere sulla possibilità di perdonare anche nelle circostanze più difficili e apparentemente ingiuste.

Potrebbe esserci un'affinità spirituale nel rapporto tra la considerazione di ordine sociale o psicologico del giovane amico diventato papà e il livello soprannaturale: si nota una loro piena complementarità morale, come istanze di saggezza pratica.  Ma può la vera saggezza essere inutile oppure dalle infinite pieghe della tradizione cristiana ci interpella ancora? 

Qualche teologo lo ribadisce: tutta la nostra civiltà occidentale è stata cesellata, se non forgiata, nel sacro fuoco del Vangelo. A differenza di Seneca, nel dialogo epistolare con Lucilio, Cristo non solo insegna una dottrina chiamata ad alleviare le sofferenze umane e ad assicurare una serenità sapienziale, ma si rivela come la Via, la Verità e la Vita, stabilendo un rapporto personale salvifico con chiunque lascerebbe tutto per seguirlo.

A questa "Imitatio Christi" appartiene l'unica morale cristiana possibile e allo stesso tempo reale.  

Ci dà  la forza per perdonare chi ci avvelena la vita con la sua stupidità o malignità. Si comincia ad assaporare la forma della vita in Cristo solo se dimentichiamo il male compiuto dagli altri. È la vittoria su ciò che i Padri della Chiesa chiamavano, con un termine chiaramente peggiorativo, "il ricordo del male" (he mnesikakia).  

Lo ricorda la celebre esortazione paolina: "Non tramonti il sole sopra la vostra ira"(Efesini 4,26). Questa terminologia greca è attestata nelle Costituzioni Apostoliche, in Gregorio di Nissa, Cirillo di Gerusalemme, Giovanni Crisostomo. Tutti insistono sulla convinzione che la mente malvagia sia di origine demoniaca.  Colui che divide ogni cosa ti aiuta a ricordare il male per ricompensarlo talionicamente con un altro male (possibilmente più grande) e a conoscere l'ira, che ti separa radicalmente da Dio (cfr Mt 10,39).

Il perdono di Stefano non fu semplicemente un atto di sopportazione passiva, ma piuttosto un gesto di amore attivo e compassione. Egli scelse di non tenere rancore o desiderare vendetta, ma di estendere il perdono come un segno tangibile del suo amore per i suoi persecutori. In questo modo, il suo atto di perdono diventa una testimonianza vivente del potere trasformante della grazia di Dio.

La lezione di Santo Stefano è più rilevante che mai nella nostra società contemporanea, caratterizzata spesso da conflitti, risentimenti e divisioni. Il suo esempio ci invita a superare il desiderio di vendetta e a cercare la via del perdono, che è un cammino di guarigione e riconciliazione. Il perdono non è un segno di debolezza, ma un atto di forza interiore che libera il cuore da catene di amarezza e odio.

Possiamo essere ispirati dal coraggio di Santo Stefano nel perdonare, imparando a "lasciar stare" e a cercare la pace. Nel perdono, troviamo la libertà di vivere con amore e compassione, seguendo l'esempio di colui che entra nel mondo Bambino per la nostra salvezza.

Nella storia biblica appena Dio rivela nella coscienza di Caino il crimine di contro Abele, egli si aspetta di essere passibile di una punizione identica, ma Dio proibisce la sua uccisione di Caino. La violenza a spirale, che scaturisce dalla vendetta, voluta o almeno percepita come sproporzionata, rappresenta il pericolo più grande.

Lo Stato, con il suo potere moderatore delle relazioni tra le persone, offre il tempo necessario affinché l'eventuale perdono ripari gli squilibri attraverso un risveglio, sia pure tardivo, della coscienza del danno causato. Quel "non sanno quello che fanno" sulla croce significa proprio che la consapevolezza di un atto può richiedere tempo. Ma durante questo tempo la persona non può essere lasciata senza uno strumento spirituale. Il perdono come disponibilità, libera la sua anima dal tumulto interiore, della sete di vendetta o dal suo rischio. 

È solo riempiendo con la grazia il vuoto prodotto dal danno che si comincia a vedere un altro debito non pagato, quello dell'uomo verso Dio. Il perdono di Dio è, in questo processo, il coronamento del perdono che l'uomo concede: una rivelazione. A Natale riceviamo e offriamo doni. Possiamo farci un regalo che non costa nulla in termini economici: una bella confessione. Saremmo più liberi e dentro di noi dopo questa disamina e pulizia, nascerà nel nostro cuore Cristo e il suo insegnamento rivoluzionario sul perdono: un vero Natale!

Elia Hagi
Autore: Elia Hagi

Studia a Roma filosofia e teologia e comunicazioni sociali e oggi svolge a Vaccarizzo Albanese il suo ministero sacerdotale. Diventato sommelier, segue con passione la rinascita del vino calabrese con un particolare interesse rivolto ai vini identitari Arbëreshë.