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Un gentiluomo del Poitou alle soglie dell’Altro

4 minuti di lettura

Una nuova, una grata totalità irrompe con Cartesio negli almanacchi e nei granai del pensiero d’Occidente. Il dubbio germina certezza, e una catena di anelli chiari e distinti riedifica la dimora che il dubbio stesso aveva franto in polvere. L’Io, Dio, il Mondo; l’algebra che si sposa alla geometria; le passioni scandagliate e squadernate, e un’umile intensa esortazione a dominarle perché la vita sia vivibile: è questo il dono di Cartesio. Ogni sua pagina mi ha sempre profuso l’aroma della tempesta ormai sedata. Quasi emblema codeste parole: “Dormo qui dieci ore per notte, senza che mai affanno alcuno mi risvegli, [vagando in sogno] fra boschi, fra giardini, fra palazzi incantati; [...] e quando m’avvedo di essere sveglio, è solo perché la mia letizia sia più compiuta.” Gratitudine mi spinse, tanto tempo fa, a dedicargli una poesia. La intitolai Un gentiluomo del Poitou, come egli soleva chiamarsi. La riporterò in coda a questo articolo, che è invece destinato a dire di un libro su Cartesio che, scritto da Daniele Ramadan, ha a titolo Solo. Il falso inedito di Descartes (Mimesis Edizioni, 2019).  

Si tratta di un romanzo; ma riesce spontaneamente ad essere pure arcidocumentata biografia, spaccato storiografico, adulto saggio filosofico. Con snello e agile gesto, Ramadan ridà vita all’usato luogo del manoscritto inedito e succulento al punto che non darlo alle stampe sarebbe avarizia; lo dice falso sin dal titolo; lo fa consistere in tre brani, rubricati come Primo, Secondo, Terzo. Primo è il semidiaristico sfogo di un Cartesio adolescente, scolaro dei gesuiti di La Flèche, torturato dalla perenne tosse ereditata dalla madre, che egli (erroneamente) crede essere morta nel darlo alla luce. Abitato da una penosa “sensazione senza nome”, passa molte ore a letto, in una vaghezza di confini tra sogno e veglia. Si osserva nel riflesso della finestra: “quel corpo è proprio la cosa che sono?” Si osserva, e nel proprio languido volto vede la madre. Secondo è un lungo abbozzo di memoriale, invano destinato a diventare lettera a Guez de Balzac. Descartes vi ripercorre gli snodi teoretici e esistenziali (fanno invero uno) che lo hanno condotto a distruggere quel vecchio mondo nel quale era immerso come in una palude e a (ri)edificare, per e su fondamenta inconcusse, un mondo in cui ogni cosa palpita e sta là dove deve. Terzo ci fa conoscere un Cartesio ingrigito, che ha attraversato l’esperienza della paternità e quella della morte della sua bimba. La fama gli procura viperini avversari e ammiratori entusiasti: fastidiosi sia quelli che questi. Oasi di grata crepuscolarità, il sodalizio con la malinconica Elisabetta di Boemia. Pure se invorticato tra i mondani rimbombi, il filosofo finisce irredimibilmente solo.

Tre segmenti della vita-pensiero di René Descartes, dunque: segmenti, ma ognuno è un piccolo tutto, e non sai se ammirare di più il totale dominio della materia teoretica da parte del giovane autore (Daniele Ramadan è nato nel 1990), la sua sapienza narrativa, la mai ornamentale bellezza delle immagini, o la lingua in cui scrive: così maliosa e ricca, da far pensare a un prodigioso atto di integrale rispetto da parte del revisore editoriale.

Quello di Ramadan è un Cartesio diverso e uguale, uguale e assai diverso dal Cartesio della mia vecchia poesia. Ho amato per questo accostarli. Vincono entrambi, ma il Cartesio di Daniele è vinto dalla sua vittoria. Forse al fine di rompere il circolo stesso del cartesianesimo con urgenze che un giorno saranno hegeliane, Ramadan mostra un uomo che non dismette mai il melancolico suo affanno. Nelle pagine finali del libro, infatti, il filosofo si fa ritrarre da un pittore per potersi vedere così come egli vede gli altri. Nel ritratto non vede però che il proprio corpo, e i corpi non sono che macchine, come macchina è il mondo: non può vedervi il Cogito, l’Io, il Pensiero. Certezza e Verità, ricercate con pena devota e trovate con entusiastica gioia, rimangono incondivisibili, “perché l’evidenza del mio pensiero non sarebbe stata altrettanto certa per un’altra mente. [...] All’interno della macchina del mondo, infatti, c’è lo spazio per un solo ‘io’.” Questa è la buia pena con la quale il Cartesio di Daniele Ramadan si ferma freddoloso alle soglie dell’Altro.

Come promesso, chiudo con i miei versi.

Un gentiluomo del Poitou.

Idee chiare e distinte… Perché vere / solo se tali? Campi di Turenna, / gesuiti, Parigi, Europa in fiamme... / Cartesio amava l’ombra, / la quiete, il caldo. / Restava a letto fino a pieno giorno. / Una tosse stizzosa / gli accompagnava i passi, lo abbracciava / in un languore disattento. / Ma non mancava di vigore: / per farsi occhio del mondo, / si aggregò alle truppe di Maurizio / di Nassau, poi a quelle / del duca di Baviera, / e tirava assai bene di scherma. / Fu in Italia. Gli spiacque: un sole troppo / convinto, sere umide, e la tenebra / copre ladri e assassini. / Pellegrinò forse a Loreto. / Vento che soffia per te solo, il dubbio. / Il mondo è ciò che ti resiste, / riverbero di te, che cadi indietro, / di immagine in immagine, e non sai, / poiché l’inganno ti governa. / Matematica, anima, catene / di anelli saldi, innegabilità / per distinzione e per chiarezza, e s’erge / nuovamente il palazzo, e il cuore pulsa, / e la cera si scioglie e si rassoda, / com’è certo che sia. Cartesio dorme, / e si desta più lieto. Io penso, io sono: / schietta ispezione della mente. / Dalla certezza e da Dio, tutto. / Io penso, e l’alba è l’alba. Ebbe una figlia. / La portava a levare nel cielo / draghi di carta colorata / a Santpoort, per le dune. L’erba, alta, / la negava allo sguardo del padre, / che ne udiva la voce, il ridere festoso. / Poi la bimba morì. Fu il più aspro / rimpianto di sua vita. Il mondo è là; / i corpi, macchine d’argilla: in moto, in quiete. / Affanno e gioia le passioni. / Vincere sé, non la Fortuna, e corrono / gli istanti come amici sfaccendati / che bene è che non sappiano / il tuo nuovo indirizzo. Cartesio si nasconde. / Sempre si era nascosto, / ma Europa tutta sapeva di lui. / Una nave da guerra / lo portò nel paese dei ghiacci / e degli orsi, da una bella regina mattiniera. / Vanivano i rumori delle armi, / e Cartesio cantò / la pace, in un balletto. / Canto di cigno il suo: morì: tra il freddo / e di freddo morì, / curando il petto di un amico. / Pace alle ossa, lode / in ogni angolo del mondo.

Ettore Marino
Autore: Ettore Marino

Lettore, se ne hai curiosità, sappi che Ettore Marino, arbërèsh di Vaccarizzo Albanese, è nato a Cosenza nel 1966; che ha collaborato e collabora con varie gazzette cartacee e digitali; che per Donzelli Editore è uscita, nel 2018, la sua "Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri"; che nel 2021 è diventata libro, per le Edizioni "ilfilorosso", una sua raccolta di liriche intitolata "Patibolo"; che nell’Aprile del 2022 ha pubblicato, per Rubbettino Editore, "Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi"; che ha scritto molte altre cose di cui va talora chiedendosi se resteranno sempre inedite; che è arcilieto di collaborare con L’Eco dello Jonio; che il Covid, di cui pure ha patito, non gli ha fatto dismettere l’uso del tabacco; che ignora quando e come morirà.