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La colpa dell’ispettore capo

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A mio personale e perciò negligibile giudizio, il più generoso di succhi tra gli scritti di Freud è un saggio del 1919 intitolato Das Unheimliche. Lo si traduce Il perturbante, Il sinistro, ovvero, con passaggio al sostantivo, Lo spaesamento. Un-Heimliche viene da Un (“non”) e da Heimat, che vuol dire sia “casa” sia “patria”, e sta a significare quel tipo di orrore che ti coglie quando t’avvedi che la sua fonte, estranea e nuova in apparenza, ti era invece domestica e antica. Sei di fronte all’Unheimliche quando, fuggendo il groppa al tuo destriero da una casa infestata dai diavoli, t’accorgi che il tuo fedele compagno di mille e più sgroppate era il diavolo stesso; sei in preda all’Unheimliche quando vieni a sapere che a metterti segretamente in mala luce presso la donna per la quale impazzivi d’amore non era stato il collega d’ufficio che mai perdeva occasione di mostrarti il suo astio, bensì tua madre, o tuo padre, o un tuo fratello. Esempi miei, non di Freud, il cui discorso era volto a altri fini. E se t’avvedi che il diavolo sei tu stesso?

A illustrare l’assunto propostosi, Freud analizza il più famoso tra i racconti di Hoffmann, e cioè Der Sandmann. A me qui torna a taglio un episodio della serie Derrick, intitolato Il sentiero. Collegio femminile tra i boschi che attorniano Monaco. Un’allieva scende dall’ultimo treno, e trova la bicicletta inservibile a causa di una ruota sgonfia. Circa sei mesi prima, una sua compagna era stata uccisa mentre, per un sentiero che attraversa il bosco, ritornava, di notte, dalla stessa stazione al Collegio. Per non dilatare il già grave ritardo, la giovane si arma contro la paura e s’incammina tra gli alberi. Le dà conforto incontrare un suo docente, professore di chimica, che abita, con l’attempata madre, in una radura del bosco stesso. Cinquantenne di chioma corvina e dall’aria pacifica, il professore la invita a casa per poterle gonfiare la ruota. In salotto, accende lo stereo, chiude a chiave la stanza della madre, inanella in un barbaro abbraccio di morte il corpo della studentessa. La madre, disperata, picchiava invano alla porta urlando il nome del marcio frutto del suo seno. Bicicletta e cadavere saranno ritrovati in margine al sentiero. Mentre ferve l’indagine, un’altra allieva telefona al Collegio chiedendo che la si venga a prelevare alla stazione. È lo stesso docente a rispondere, giacché tocca a lui quella notte di fare il sorvegliante. Promette alla ragazza di inviare il factotum. Si reca invece di persona allo scalo ferroviario, riaccompagna l’allieva per il sentiero solito, la invita a casa. Ma dalla stanza della madre sbuca Derrick. L’anziana signora ha confessato. Il calappio s’è chiuso. 

Per un quarto di secolo circa, Stephan Derrick, umano forte dolce buono, di intelletto acutissimo, di intuito che mai falla, ci tenne compagnia, e gliene fummo grati. Una manciata d’anni addietro venne alla luce che Horst Tappert, l’attore che lo impersonava, aveva militato tra le fila delle Waffen SS, Divisione corazzata Totenkopf. Giusto stupore e giusto sdegno. Saperlo (e bene è che ogni cosa si sappia) inquina la placida gioia di tornare a seguire questo o quell’episodio di una serie televisiva che in tanti abbiamo amato. Tappert aveva sempre sostenuto di avere militato tra le truppe del genio e di essere stato infermiere negli ospedali da campo. Perché mentì? Forse perché dicendo il vero si sarebbe condannato a un’esistenza oscura e misera? Fossi nato tedesco un centinaio d’anni addietro, che cosa sarei stato mai, io che stendo oggi e qui queste note? Se mi fossi macchiato di orrori, avrei avuto il coraggio di ammetterli? Ringrazio il Fato che mi fece nascere in un’Italia pacifica, e taccio. Ma il problema rimane, e si materia d’un doloroso interrogativo circa il concetto stesso di colpa. Colpa di un governo, di una nazione, di un popolo plaudente; colpa di chi non si oppose. Sulla colpevole Germania, Karl Jaspers, tedesco sposato a un’ebrea, scrisse pagine di alto vibrante pensoso dolore. Le ricordiamo di sfuggita, pressati come siamo a muovere timidi passi su un terreno viscido, equivoco, malfido. S. L., una signora tedesca nata nel 1972, mi confessò più volte di provare colpa per quanto commesso dai suoi avi. Non fu l’ebraico il solo popolo perseguitato in quanto popolo. Ricordiamo soltanto la pulizia etnica inflitta dai serbi agli albanesi di Kosòva… Ripeto: ricordiamo! Doveroso sarebbe ricordare ogni simile orrore. Per un coagulo di contingenze, è solo quello patito dagli ebrei a esserlo. Seguiteremo a ricordarlo. È doveroso. Ma un passo ulteriore è da compiersi, in ognuno di noi. Del Male, Hitler fu una delle più squallide grandiose ripugnanti organizzate incarnazioni. Se però si sentenzia ch’egli fu il Male stesso, si formula un’iperbole comoda, fuorviante, pericolosa. Se il Male è Hitler, noi siamo per definizione nel Bene, o il Bene stesso. Capolavori letterari e cinematografici ebbero a tema la Shoah. Tanti, e pur sempre pochi. Ma quanti filmetti ruffiani hanno preso la Shoah a pretesto? Quanti rigagnoli di sdegno pretestuoso sono stati versati sull’atrocità patita dagli ebrei? Fecondo è solo lo sdegno alto e sincero: lo sdegno doloroso. Ma lo sdegno, però, può diventar mestiere: mestiere che arricchisce grassi e bavosi presentatori di talk show o filiformi pennivendoli. Ogni malvagità può offrire un’esca a chi sappia mutarla in spettacolo, a convertirla in predicozzo. Certa TV è il luogo eletto al prodursi d’un gaudio siffatto: una donna ha patito violenza, e chi guida il talk show sbroda la propria indignazione leccandosi i baffi; un gay è offeso in quanto gay, il sacerdote del politicamente acconcio predica, e ogni fariseo si sente un giusto agli occhi dell’Altissimo. Nella persona dei suoi sacerdoti e delle sue maestrine, il politically correct è una tirannide che insozza gli alti valori di cui si finge spada e scudo. Con questo, un paradosso in più nel calderone che si chiama Mondo, giacché, e quasi non occorre dirlo, sentirsi giusti agli occhi dell’Altissimo provando un più o meno sincero raccapriccio alla notizia d’uno stupro è seimila volte preferibile all’inqualificabile orgoglio di chi giungesse a compiacersi di averne consumato uno. Ma occorre sempre andare oltre. Rammemoriamo Hitler e Stalin, Pol Pot e Pinochet, la Shoah e il massacro degli armeni e dei curdi, se Nerone e Caligola sono troppo lontani… Ma se ognuno di noi si chiedesse quanto in lui c’è di Hitler e quanto di ebreo, quanto di don Rodrigo e quanto di Renzo e di Lucia, quanto di boia e quanto di vittima; se ognuno di noi affrontasse il perturbante con cui aprimmo queste note, e lo affrontasse nel petto suo proprio, forse la signora S. L., tedesca nata nel 1972, cesserebbe di doversi ogni volta giustificare agli occhi di chi, nato pur egli decenni dopo la fine della guerra, si va pubblicamente masturbando con un filmetto ruffianesco, con un volgare ammicco alla platea, con un discorso troppo e troppo gaudiosamente giusto perché sia giusto per davvero. 

Ettore Marino
Autore: Ettore Marino

Lettore, se ne hai curiosità, sappi che Ettore Marino, arbërèsh di Vaccarizzo Albanese, è nato a Cosenza nel 1966; che ha collaborato e collabora con varie gazzette cartacee e digitali; che per Donzelli Editore è uscita, nel 2018, la sua "Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri"; che nel 2021 è diventata libro, per le Edizioni "ilfilorosso", una sua raccolta di liriche intitolata "Patibolo"; che nell’Aprile del 2022 ha pubblicato, per Rubbettino Editore, "Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi"; che ha scritto molte altre cose di cui va talora chiedendosi se resteranno sempre inedite; che è arcilieto di collaborare con L’Eco dello Jonio; che il Covid, di cui pure ha patito, non gli ha fatto dismettere l’uso del tabacco; che ignora quando e come morirà.