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Una voce e due re

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Che voce aveva Jacques-Bénigne Bossuet?

Quando, ragazzo, immaginavo Demostene pronunciare un’orazione, lo figuravo, vinta la balbuzie su cui era andato incespicando nei primi suoi anni, padrone del gesto e dell’eloquio, femmineamente manierato, appena un po’ malfido. Giulio Cesare mi appariva gelido, incapace d’errore, sottilmente stronzo. Cicerone era invece un assai dotto generoso e leale inquilino dell’Urbe; enfatico, infine e soprattutto, come un vecchio zio. Però: che voce avevano? Il timbro, intendo; la grana della stessa.

Bossuet (1627-1704), per chi non lo sapesse (e non è colpa!), fu vescovo, fu precettore del Delfino, fu polemista religioso. Fu, e qui ciò importa, oratore sacro. Non il più amato del suo tempo (Louis Bourdaloue conobbe plauso più intenso e più vasto), ma quello che a noi ha più da dire. Predicò tra le plebi, predicò a corte: franco coi grandi, pietoso con i poveri. Che Morte e Vanità fossero, per lui vescovo, i due pilastri su cui levare l’eternità dell’Eterno, non può stupire alcuno. Sopra le due mancanze (in fondo, una mancanza sola), Bossuet seppe innalzare il suo proprio potente dettato. Un solo esempio. Per Madame s’intendeva in quel tempo la moglie di Monsieur, e per Monsieur s’intendeva Filippo, duca d’Orléans, fratello unico del re. La consorte del duca era Enrichetta d’Inghilterra (Madame, appunto): assai leggiadra e civettuola principessa, amante delle arti, dotata di fiuto politico e diplomatico. Morì ventiseienne, di sospetto veleno, a Saint-Cloud, il 30 Giugno del 1670. Bossuet, che le aveva somministrato i Sacramenti, ne pronuncerà l’Oraison funèbre, del cui brano più celebre riporto un mio tentativo di traduzione: “Dovremmo essere già certi del nostro nulla: ma se occorrono moniti inattesi ai nostri cuori stregati dall’amore del mondo, questo è grande e terribile quanto basta. O notte disastrosa! o notte di terrore, in cui di colpo risuonò come un boato di tuono questo incredibile annunzio: Madame si muore! Madame è morta!” Voltaire un giorno annoterà che l’uditorio singhiozzava e che la voce di Bossuet fu fermata dai pianti e dai sospiri che gli montavano dal petto. La voce di Bossuet… La conosco assai bene, giacché (è un gioco e non è un gioco) me la figuro identica a quella di André Malraux.

Romanziere, saggista, uomo d’arme, Malraux seppe incarnare con la più eletta intensità il generoso egocentrismo di santa madre Francia. Era abitato dall’idea della morte. Una catena di trapassi innaturali (suicidio, guerra, incidenti di treno e di auto) aveva funestato la sua esistenza. Sopra la finitudine delle cose, levò a vessillo di salvezza la perennità delle immagini, l’impegno, la parola, un costante dialogo con le civiltà di ogni luogo e di ogni tempo, una fraternità laica greve di succhi religiosi. Ebbe fede nell’uomo. Seppe testimoniarla. Dopo la tragica perdita di due figli, l’alcool, gli psicofarmaci, la sempiterna sigaretta lo condussero all’ultima soglia. Non la varcò. Ne trasse un breve libro di aspro splendore: Lazare (“Lazzaro”, 1974), e non occorre chiosa. Le ultime interviste lo palesano tormentato dai moti convulsi che la sindrome di Gilles de la Tourette gli imprimeva sul volto. Rochi cali di voce ne maculavano l’eloquio, e vederlo parlare e mal sentirlo riempie di tristezza. La voce dei giorni suoi migliori racchiudeva l’enfatica grazia di certa tradizione d’Oltralpe. Ministro di de Gaulle, a lui toccava tenere i discorsi negli snodi più intensi della Quinta Repubblica. Un algido mattino del Dicembre del 1964 furono traslati al Panthéon i resti di Jean Moulin, eroico capo della Resistenza, invano torturato dai nazisti perché parlasse, morto sul treno che l’avrebbe condotto al campo di concentramento. Malraux lo celebrava, quel giorno di Dicembre, sotto un cielo di piombo, alla presenza della sorella di Moulin, del primo ministro Pompidou, del generale de Gaulle. L’Europa sana, la Francia generosa, la lotta a Hitler, il buio eroico di quell’ora tornavano a vivere e a vibrare nelle sue parole. Virili rulli di tamburo presero infine a accompagnare l’oratore, che chiuse apostrofando la gioventù di Francia: “Oggi, gioventù, possa tu pensare a quest’uomo quasi avessi accostato le tue mani al povero viso disfatto dell’ultimo suo giorno, a quelle labbra che non avevano parlato; quel giorno, esso era il viso della Francia.” Laico sovrano della Cinquième République, de Gaulle ebbe un fremito breve.

Udire sulla pagina di Bossuet la voce del Malraux dei suoi giorni migliori è bizzarria che riguarda me solo. Edificare sulle rovine della morte fu la sfida di chissà quanti scrittori, e forse della scrittura stessa. Sulla domestica lotta tra parola parlata e parola scritta non è questo il luogo di snocciolare verità che forse neanche posseggo. Presumo che paralleli tra Bossuet e Malraux ne siano stati già tracciati. Non coltivando veneri di priorità, saluto e chiudo!

Ettore Marino
Autore: Ettore Marino

Lettore, se ne hai curiosità, sappi che Ettore Marino, arbërèsh di Vaccarizzo Albanese, è nato a Cosenza nel 1966; che ha collaborato e collabora con varie gazzette cartacee e digitali; che per Donzelli Editore è uscita, nel 2018, la sua "Storia del popolo albanese. Dalle origini ai giorni nostri"; che nel 2021 è diventata libro, per le Edizioni "ilfilorosso", una sua raccolta di liriche intitolata "Patibolo"; che nell’Aprile del 2022 ha pubblicato, per Rubbettino Editore, "Un quadrifoglio, verde tra le spine. Traduzioni da poeti italoalbanesi"; che ha scritto molte altre cose di cui va talora chiedendosi se resteranno sempre inedite; che è arcilieto di collaborare con L’Eco dello Jonio; che il Covid, di cui pure ha patito, non gli ha fatto dismettere l’uso del tabacco; che ignora quando e come morirà.