Puntare sui marcatori identari per non odiare le proprie origini
Spartaco Pupo: «Se la xenofobia, nell’accezione comune, è la paura ingiustificata delle altre culture, allo stesso modo si può dire che l’oicofobia è il terrore nei confronti del proprio retaggio, della propria identità»
CORIGLIANO-ROSSANO – Se la xenofobia, nell’accezione comune, è la paura ingiustificata delle altre culture, allo stesso modo si può dire che l’oicofobia è il terrore nei confronti del proprio retaggio, della propria identità. Ma c’è una differenza di fondo: mentre la xenofobia può colpire indistintamente tutte le classi e i gruppi sociali, l’oicofobia attacca soprattutto le persone acculturate.
È questo uno dei passaggi chiave del primo approfondimento dal titolo "A Bruxelles (e non solo) si soffre di oicofobia" (integralmente pubblicato su www.oikoscentrostudi.org) attraverso il quale Spartaco Pupo, professore di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria, propone una sintesi delle sue ricerche apparse negli ultimi dieci anni su saggi e articoli, sia in italiano che in inglese, in diverse riviste scientifiche. Pupo propone e condivide strumenti di interpretazione del disturbo oicofobo nella dimensione pubblica regionale ed europea. È infatti convinto che la contingenza politica, a livello sia locale che globale, renda necessaria una seria riflessione su quale debba essere il giusto antidoto all'atteggiamento oicofobo, ormai dilagante persino nelle istituzioni. Una valida politica anti-oicofoba – osserva il professor Pupo – si potrebbe realizzare in Calabria con l’ambizioso progetto di ripensamento metodologico e di riscrittura della narrazione della Calabria come destinazione turistica, messo in campo dalla Regione Calabria attraverso la mappatura dei cosiddetti Marcatori ed Eventi Identitari Distintivi (MID).
Secondo il docente dell'Unical, occorre combattere il sentimento di vergogna e patologica paura delle proprie radici che incide profondamente sulla valutazione sia soggettiva che collettiva della Calabria, ad iniziare dagli stessi calabresi, specialmente di quelli sparsi nel mondo. Anche a livello sovranazionale andrebbero ricercate misure di contenimento dei danni provocati dall'attitudine oicofoba. In Europa gli oicofobi sono da tempo a lavoro per distruggere quel poco che rimane del riconoscimento identitario e del sentimento di appartenenza, che serve alla vita degli uomini quasi quanto l'ossigeno. Per esempio, il documento "Union of Equality", con cui la Commissione Europea intende promuovere un linguaggio epurato da ogni riferimento di “genere, etnia, razza, religione, disabilità e orientamento sessuale”, compresi i nomi di persona che si richiamano alla tradizione cristiana, ha senza dubbio un'origine oicofoba. Di tutto abbiamo bisogno oggi tranne che di una "oicofobocrazia" europea, guidata da chi rifugge dalla patria, come terra dei padri (e delle madri), al punto non solo da preferire sempre il globale, internazionale o sovrannazionale, al locale e nazionale, ma anche di svendere e tradire la sua stessa identità.
In Europa – continua Pupo – perdura una tendenza politico-culturale che spinge alla denigrazione di costumi e istituzioni ereditate, insomma di tutto ciò che è "nostro" e si identifica più o meno direttamente in un Noi, nella dimensione collettiva del vivere le relazioni sociali e politiche. Tale tendenza, che non disdegna strumenti totalitari e violenti, come nel caso della "cancel culture", porta automaticamente ad additare tutti coloro che difendono la prima persona plurale, e cioè la famiglia, la regione, la nazione, la comunità, la tradizione, come pericolosi razzisti, xenofobi, nostalgici, reazionari, sciovinisti, ecc.
L’oicofobia – spiega il professore citando, tra gli altri, il neurologo francese Charles Féré, lo psichiatra italiano Bernardo Salemi Pace, il poeta inglese Robert Southey, il filosofo Sir Roger Scruton e lo stesso George Orwell – è il frutto non solo di un pregiudizio ideologico caratterizzante aree ben identificate del pensiero e dell’azione politica contemporanei, ma anche di una sorta di patologica continuazione di stati psichici adolescenziali, che rappresenta l’altra faccia della stessa medaglia rispetto alla xenofobia, che, come è noto, è la paura dell’altro, del diverso.
A tutt’oggi – conclude Pupo – l’oicofobia è usata in psichiatria per indicare un’avversione patologica all’ambiente domestico e a tutto ciò che l’abita. Alcuni psichiatri, come B. C. Carlsted, B. C. Stanaszek e, più recentemente, R. J. Campbell, la descrivono come un fenomeno pressoché “normale” in quegli adolescenti che non si vedono pienamente integrati nel gruppo dei loro coetanei e tendono ad adottare atteggiamenti che li portano a rifuggire dal loro contesto originario per paura di essere giudicati negativamente.
Si tratta di una “fase” attraverso la quale la mente dell’adolescente passa più o meno ordinariamente. Meno “normali”, si può dire, sono i segni evidenti di atteggiamento oicofobo negli adulti, soprattutto in ambiti di esperienze che oltrepassano il terreno puramente psicologico e comportamentale, comunque individuale, per raggiungere lo spazio pubblico.