L'olivicoltura calabrese (di qualità) in ginocchio: serve una rivoluzione nel sistema agroalimentare calabrese
La denuncia di Altragricoltura. Prezzi da fame, importazioni record, etichette ingannevoli e mercati fuori controllo: l’extravergine calabrese è vittima di una crisi strutturale che può essere arginata solo con infrastrutture, organizzazione e una vera tutela dei produttori
CORIGLIANO-ROSSANO - C’è un grido che risuona, in queste settimane, tra gli uliveti calabresi pregni di storia e sapore; un grido che è più forte del rumore degli scuotitori e del vento che piega le fronde degli ulivi: è la voce di un’agricoltura di qualità tradita, lasciata sola, abbandonata al suo destino. L’ha riaccesa con parole amare ma lucidissime Luana Guzzetti, olivicoltrice e coordinatrice regionale di Altragricoltura Calabria, che denuncia senza giri di parole un sistema collassato sotto il peso dell’ingiustizia economica e della burocrazia.
La raccolta delle olive — simbolo di una Calabria antica e nobile — si sta trasformando in un incubo gestionale: mancano i lavoratori, i costi di produzione sono esplosi, e il mercato, quello che dovrebbe premiare la qualità, volta le spalle.
I numeri parlano, come sempre da soli. Un’ora di lavoro specializzato costa fino a 150 euro, la frangitura tocca i 20 euro al quintale, mentre il prezzo riconosciuto per l’olio biologico crolla a 7,50 euro al chilo, appena sufficiente a coprire una parte dei costi.
Non solo le "simil-clementine" dal nord Africa arriva anche l'olio
È un’equazione impossibile, che spegne la speranza di migliaia di aziende. Nei giorni scorsi abbiamo parlato di come il mercato marocchino degli agrumi, delle simil-clementine - in particolare - stia impadronendosi del mercato italiano ed europeo annichilendo l'eccellenza della Clementina di Calabria, della Piana di Sibari in particolare (leggi qui). A quanto pare non se la passa bene nemmeno l'olio. Una bottiglia d’olio calabrese vale meno di una bottiglia di acqua di marca. E mentre il sudore dei nostri produttori evapora nei campi, l’Italia - denuncia Altragricoltura - importa olio dall’estero: oltre 252 mila tonnellate nei primi mesi del 2025, il 66% in più rispetto all’anno precedente, gran parte proveniente dalla Tunisia, dove si paga 2,80 euro al chilo.
Un olio che arriva, viene imbottigliato in Italia, e finisce sugli scaffali con la dicitura “imbottigliato in Italia”. È legale, ma è un inganno. È il Made in Italy senza l’Italia dentro.
Mentre gli agricoltori calabresi sono sottoposti a controlli, registri digitali e tracciabilità rigidissime, l’olio straniero scivola in un limbo di norme permissive e opacità. Non c’è un registro pubblico che segua il suo percorso dal porto allo scaffale.
Così la speculazione diventa regola, la trasparenza un’eccezione, e la qualità un dettaglio.
E come se non bastasse, a questa giungla si aggiunge quella del web: social network e marketplace invasi da profili che vendono olio “artigianale” senza controlli, senza etichette chiare, senza tracciabilità né fatture. Un far west digitale dove tutto è possibile e dove chi lavora in regola viene spinto fuori dal mercato.
Questa è la realtà: la Calabria olivicola — che con i suoi 180 mila ettari coltivati rappresenta oltre un quarto della superficie olivicola italiana — è al collasso.
Un settore che un tempo era motore di identità e ricchezza oggi è un labirinto di costi, burocrazia e solitudine istituzionale.
Ma questa crisi non riguarda solo l’olio. È il simbolo di un male più profondo: la disorganizzazione della rete agroalimentare calabrese, la mancanza di una visione unitaria e di una strategia logistica che permetta di valorizzare ciò che produciamo.
Perché l’agricoltura non è folklore, è economia, è industria, è identità. E non può più sopravvivere senza infrastrutture efficienti, senza piattaforme del freddo, senza sistemi di stoccaggio e distribuzione regionali che proteggano chi produce e facciano da scudo alla concorrenza sleale.
La Calabria ha bisogno di una nuova stagione di rilancio del suo comparto agroalimentare d'eccellenza: una riforma integrale della rete, che unisca produttori, trasformatori, consorzi, logistica e istituzioni; serve una Cabina di regia regionale che pianifichi e gestisca la catena del valore, dalla terra al mercato, come accade in Emilia, in Veneto, in Puglia; serve una legge che imponga etichette chiare e trasparenti, un registro unico delle importazioni, e controlli veri sulla tracciabilità; serve che la politica, finalmente, metta mano a un piano industriale dell’agricoltura.
Non è più tempo di lamenti, ma di scelte.