Strage di Marcinelle dell’8 agosto 1956, i calabresi morti nella miniera usati come merce di scambio
Una appassionata riflessione di Lenin Montesanto, direttore di Otto Torri sullo Jonio, sulla tragedia avvenuta in Belgio nel giorno della commemorazione. Un ossequio ai tanti i calabresi morti nella miniera

CORIGLIANO-ROSSANO – «È una di quelle storie di cui vergognarsi come italiani e che nessuno ci ha mai raccontato nei libri di storia, nelle nostre scuole di ipocrita e finta retorica nazional-popolare e catto-comunista».
È quanto dichiara Lenin Montesanto, direttore di Otto Torri sullo Jonio, commentando la strage di Marcinelle dell’8 agosto 1956, in Belgio.
Quella mattina di 66 anni fa, nella miniera di carbone Bois du Cazier, 262 minatori morirono in una delle più gravi tragedie sul lavoro di tutti i tempi. Dei 262 operai periti 136 erano italiani, quasi tutti provenienti dal mezzogiorno d’Italia. Metà erano abruzzesi, e buona parte erano calabresi originari di Reggio Calabria, Cosenza, San Giovanni in Fiore, Caccuri, Cerenzia, Castelsilano, Santa Severina, Rocca Bernarda, Savelli, Scandale, di tutta la Sila e dell’intero Marchesato di Crotone.
«È – continua – una di quelle pagine, purtroppo censurate, di uno Stato che si riavviava dopo il fascismo e che, nel 1946, nel momento della ricostruzione e della rinascita postbellica, invece di motivare tutti a rimettere in piedi da Nord a Sud il Paese distrutto, avviava una campagna di selezione regionale e di propaganda oicofobica di Stato, condivisa da DC e PCI, per iniettare negli italiani, soprattutto nei meridionali, il veleno anti-identitario, la droga della rinuncia a priori alla propria terra, il mito falso e catastrofico dell’emigrazione a prescindere, che – scandisce – resiste ancora oggi».
«E così migliaia di calabresi, insieme ad altri connazionali, letteralmente venduti dall’Italia repubblicana in cambio di carbone, privando delle loro preziose presenza e risorsa la terra in cui erano nati, partivano per Milano e da qui deportati in Belgio come bestie, rinchiusi in vagoni bestiame e senza soste intermedie, per andare a distruggersi o a morire in miniere nelle quali concittadini di mezza Europa avevano già rifiutato di andare; dormendo – ricorda e conclude Montesanto – nei campi di concentramento costruiti durante l’occupazione nazista per i prigionieri di guerra sovietici, prossimi alle miniere: baracche di legno, cartone asfaltato o lamiera ondulata, ancora cinte dal filo spinato, sprovviste di pavimentazione, acqua corrente, gas ed elettricità».
(fonte comunicato stampa)