Resistenza senza armi. La vicenda degli Internati militari italiani nei lager tedeschi
Storie formidabili di coerenza, dignità, umanità e coraggio, scritte da questi “resistenti senza armi”, assieme a tutti gli altri resistenti, in uno dei periodi più bui della storia recente dell’umanità
Con l’istituzione, il 20 settembre di ogni anno, della “Giornata degli Internati militari italiani nei campi di concentramento tedeschi durante la 2^ Guerra mondiale”, votata dal Parlamento con la legge n. 6/2025 e inaugurata al Quirinale il 19 settembre scorso, il tema dell’internamento nei lager tedeschi è tornato di attualità.
Della vicenda dei militari italiani (circa 700 mila) che, dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, si rifiutarono di continuare a combattere a fianco dell’ex alleato tedesco, l’opinione pubblica del nostro Paese e la stessa storiografia hanno preso coscienza con molto ritardo, nonostante la pubblicazione di numerosi diari e memoriali di ex deportati che iniziò già nei primissimi anni del dopoguerra e continuò anche nei decenni successivi. Tale ritardo è ascrivibile, da un lato, al clima politico e sociale di quegli anni che, tutto teso a dimenticare e a sacrificare il valore della memoria in una spasmodica voglia di futuro, si mostrò poco incline a riconoscere una qualche specificità al fenomeno del “reducismo” e, dall’altro, alla tendenza della storiografia del tempo a leggere gli eventi della storia recente secondo le categorie oppositive fascismo-antifascismo. La stessa Resistenza, a proposito della vicenda degli internati, parlò di una pagina di storia da rimuovere o cancellare.
Solo negli ultimi decenni del secolo scorso e agli inizi del nuovo si è fatta strada una considerazione più attenta del tema dell’internamento e se ne è riconosciuto il valore “resistenziale”. Il merito è senza dubbio di un clima politico e sociale nuovo, del quale si è fatto autorevole interprete qualche anno fa l’ex Presidente della Repubblica ed ex partigiano Carlo Azeglio Ciampi, quando ha qualificato come altra forma di resistenza la scelta di tanti prigionieri italiani che preferirono il rigore dei lager all’accettazione di forme di collaborazione con chi aveva valori diversi, o la durezza della prigionìa, pur di mantenere fede al giuramento prestato.
È altresì merito di una visione storiografica più aperta e problematica, che finalmente ha riconosciuto dignità di fonte documentaria alla diaristica e alla memorialistica coniugando in tal modo memoria e storia, spinta emotiva e testimonianza storica. Ed è, soprattutto, merito dell’azione efficace ed incisiva svolta dall’ANEI (Associazione nazionale ex internati), dall’ANRP (Associazione nazionale Reduci di prigionia) e dall’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano che custodisce gran parte della scrittura autobiografica relativa alla prigionìa politica e militare della seconda guerra mondiale.
Sul piano propriamente storiografico un particolare merito va riconosciuto allo storico tedesco Gehrard Schreiber il quale, oltre ad aver approntato delle stime abbastanza attendibili sulla consistenza numerica dei militari italiani (suddivisi tra disarmati, internati e deceduti), ha anche introdotto nel campo della ricerca storica la nozione di “resistenza senz’armi”, qualificando come tale la mancata scelta collaborazionista fatta dalla stragrande maggioranza di questi all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943, con ciò confermando quanto buona parte della memorialistica degli anni ’50 e ’60 aveva già anticipato (rimando per tutti al bel libro di Alessandra Natta, L’altra resistenza, Torino, Einaudi, 1954).
Lo ha ribadito autorevolmente il Presidente della Repubblica nel suo intervento alla cerimonia del Quirinale già ricordata, quando ha affermato che «grazie anche a tante resistenze senza armi la Resistenza armata ha trovato allora terreno fertile, consensi e sponde preziose. Quei principi di libertà, di indipendenza, di pace sono diventati patrimonio comune anche in virtù di sacrifici diffusi nella popolazione, di solidarietà generose e di tanti eroismi rimasti sconosciuti, sorretti dalle coscienze personali e propagatisi proprio con la forza di coerenti testimonianze (...). La testimonianza di chi ha compiuto scelte coraggiose, che hanno contribuito a rendere possibile un futuro migliore, rappresenta un seme di speranza. Va rivolta – e va espressa – la nostra riconoscenza a uomini che tanto hanno dato alla nostra libertà e al nostro benessere, quando l’esito era incerto e il rischio personale altissimo. Questa riconoscenza – ha concluso il Capo dello Stato – non deve mai venire meno».
Sono abbastanza convinto che la conoscenza delle storie formidabili di coerenza, dignità, umanità e coraggio, scritte da questi “resistenti senza armi”, assieme a tutti gli altri resistenti, in uno dei periodi più bui della storia recente dell’umanità, potrà essere una direzione di senso per quanti hanno a cuore le sorti progressive del genere umano.
All’interno della problematica relativa alla vicenda degli internati non si possono passare sotto silenzio le drammatiche esperienze sopportate da tanti nostri corregionali, alcuni dei quali hanno scritto il diario della loro prigionìa. È il caso, per limitarci al nostro Alto Jonio, del maresciallo Leonardo Rizzo di Albidona, internato per 24 mesi (22 settembre 1943-10 settembre 1945) nei campi di concentramento di Dortmund e di Altenvoerde, e del maresciallo Giuseppe Lizzano di Trebisacce, fatto prigioniero dagli Inglesi (5 aprile 1941), deportato nel campo di concentramento di Pretoria in Sud Africa, dove rimase fino al 1944, poi trasferito in Inghilterra fino al marzo 1946, quando, liberato, fece ritorno a casa il mese successivo.
Di tanti altri si hanno poche notizie, anche perché i protagonisti non ebbero voglia di scrivere sulla loro tragica esperienza e, nemmeno, di parlarne in famiglia per non rievocarne i dolori e le sofferenze patite. Dato l’alto valore storico/storiografico ed educativo della vicenda, è altamente meritoria l’azione delle Associazioni degli internati e, soprattutto, dell’ANEI (Associazione nazionale ex Internati) che, tramite le sezioni locali, cerca di far venire alla luce le storie personali di questi “resistenti senza armi”, attraverso la collaborazione dei familiari, in modo da poterne onorare la memoria con il conferimento post mortem della medaglia d’oro al valore, previsto dall’art. 1 della legge n. 296 del 2006.
(di Giuseppe Trebisacce)