Bartolomeo ci insegna che «custodire la Calabria non è un dovere. È un atto d’amore»
Un racconto, scritto con il cuore e con la memoria, in vista delle elezioni regionali. «È un invito, un promemoria, forse anche un atto di fiducia» verso le future generazioni

Non faccio politica, né questo testo è una proposta o un programma. È un racconto, scritto con il cuore e con la memoria. In vista delle elezioni regionali, ho immaginato una figura simbolica – Bartolomeo – che non parla di partiti né di potere, ma di amore per la propria terra. È un invito, un promemoria, forse anche un atto di fiducia. Perché la Calabria non ha bisogno solo di progetti: ha bisogno di chi l’ascolta. Di chi la custodisce. Di chi la merita.
***
Tantissimi anni fa, in un grande paese posto su uno sperone e protetto da rocce rossastre nacque un bambino chiamato Bartolomeo. Sua madre diceva che era nato durante un temporale, ma che appena era venuto al mondo, la pioggia si era fermata e un raggio di sole aveva illuminato il viso ‘e ra vammána. «È un segno» dicevano le vecchie. «Questo figlio sentirà la voce della terra».
Bartolomeo cresceva in silenzio, con gli occhi sempre rivolti all’orizzonte. Non era un bambino triste, ma sembrava abitare anche altrove, come se vivesse metà in quel paese, metà in un luogo segreto che solo lui conosceva. Camminava spesso nei boschi, dove diceva di sentire le storie raccontate dagli alberi. Guardava le pietre come si guarda chi ha visto troppo, e ascoltava i vecchi non per educazione, ma per sete.
Un giorno, un forestiero salì fino al paese. Veniva dal nord, parlava una lingua dura e veloce. Voleva comprare terra, costruire, modernizzare. Bartolomeo lo osservava dalla piazza Steri (il salotto della città dove una volta, secondo alcuni, c’era il palazzo del Governatore e dove, secondo altri, e non pochi a confermarlo, vi era la chiesa della Ss. Trinità), seduto sul muretto come ogni pomeriggio sotto la Torre dell’orologio. Nessuno gli dava peso: era solo un ragazzo.
Il forestiero si rivolse al sindaco, agli uomini importanti, portava mappe, promesse, numeri. Diceva che la bellezza non bastava, che ci voleva sviluppo, che le colline potevano diventare strade, che i vecchi ulivi non servivano a nulla. Fu allora che Bartolomeo parlò. Lo fece senza alzare la voce, ma la sua parola aveva il peso delle radici. «Voi guardate la terra come si guarda una pietra. Io la guardo come si guarda una madre. Lei non è muta: parla. Sente. Soffre.» Il forestiero rise, ma non troppo. C’era qualcosa nello sguardo di quel ragazzo che gli metteva agitazione.
Passarono gli anni. Bartolomeo divenne uomo, ma non lasciò mai il paese. Studiò, scrisse, camminò. Era diventato custode di sentieri, raccoglitore di voci, testimone di una bellezza che nessuna fotografia poteva contenere. Un giorno, seduto sulla rupe da cui si vedeva il mare e la Sila insieme, Bartolomeo pensò a Dio. Si chiese se davvero, in quel giorno lontano, il Signore, come molti anni fa ci ricordava Leonida Repaci, avesse scelto l’argilla migliore per modellare quella terra. Gli sembrava di sì. Eppure, la Calabria era rimasta sempre un po’ dimenticata, come un quadro bellissimo lasciato in soffitta. Ma capì anche un’altra cosa: che forse Dio non aveva voluto completarla del tutto. Forse aveva lasciato dei vuoti apposta, delle crepe, delle rughe. Perché toccava a chi ci viveva riempirla. Con amore. Con memoria. Con ostinazione. Bartolomeo sorrise. La Calabria non era una terra da capire. Era una terra da meritare.
Bartolomeo aveva ormai superato i quarant’anni. Viveva nella stessa casa dove era nato, un casale di pietra che guardava la vallata del Celadi come un vecchio che ha visto passare la storia senza mai muoversi dalla sua sedia. Il tempo non gli aveva tolto la dolcezza negli occhi, né il passo lento da uomo che osserva prima di parlare. Non aveva fatto carriera, non era diventato ricco, eppure chi passava da quel paese chiedeva sempre di lui. Alcuni dicevano che conoscesse ogni pietra per nome, altri giuravano che avesse salvato dal cemento un intero bosco solo con la forza della parola. I bambini lo chiamavano «l’uomo degli alberi», le madri lo salutavano con rispetto, i vecchi lo ascoltavano come si ascolta uno di loro, anche se era molto più giovane.
Ma Bartolomeo sapeva che non bastava conservare: bisognava anche guarire. Perché la Calabria, pur così bella, era anche una terra ferita. Non solo dalla fatica e dall’abbandono, ma da un dolore più profondo: quello di non essere mai stata del tutto compresa, nemmeno dai suoi figli. C’erano paesi svuotati come conchiglie, case che avevano perso i loro nomi, campi abbandonati, storie spezzate. La terra sembrava bella e muta, ma chi sapeva ascoltare sentiva ancora quel respiro antico, quel battito che non voleva morire. Fu in quei giorni che Bartolomeo cominciò a scrivere lettere. Non email, non messaggi. Lettere vere, di carta ruvida, scritte a mano. Le indirizzava a chi era partito, a chi viveva lontano, a chi della Calabria conservava solo una foto sbiadita in cucina.
«Non ti chiedo di tornare – scriveva – ti chiedo solo di ricordare. Ricorda l’odore del pane al mattino, il silenzio delle strade in agosto, i fichi rubati al tramonto. Ricorda tua nonna che cantava mentre cucinava. Ricorda chi eri quando eri qui». Le lettere viaggiavano lente, come le rondini fuori stagione. Alcune non avevano risposta. Ma altre sì. Arrivarono buste da Milano, da Bruxelles, da Toronto, persino da Melbourne. Persone che non avevano più messo piede al Sud da decenni scrivevano: «Hai ragione. Ho sognato quella piazza. Ho risentito le cicale. Ho pianto». E qualcuno tornava. Magari per un’estate. Magari per sempre.
Quella sera, Bartolomeo tornò a casa più tardi del solito. Aveva camminato a lungo, senza meta, tra campi incolti e case abbandonate, ascoltando il suono sordo di una terra che sembrava stanca persino di parlare. Si fermò sul gradino davanti alla porta, con le mani sporche di terra e il cuore pieno di silenzio. Per un attimo pensò che forse aveva sbagliato tutto. Che amare quella terra non bastava. Che forse il forestiero, anni prima, aveva ragione: la bellezza non basta. Si chiese se valesse davvero la pena resistere, ogni giorno, contro l'indifferenza, contro il tempo che porta via tutto, contro la voce insistente di chi diceva: «Tanto non cambia niente». Sentì la stanchezza salire lenta, come una nebbia. Si sentì solo. Piccolo. Fuori posto. Ma proprio in quel momento, una civetta cantò da un ramo d’ulivo. E lui si ricordò del respiro che aveva sentito tra gli alberi da bambino. Si ricordò delle lettere ricevute, delle lacrime di chi tornava, dei bambini che lo chiamavano «l’uomo degli alberi».
Respirò a fondo. E in quel respiro c’era di nuovo la voce della terra. Non era una risposta. Ma era abbastanza per continuare.
Un giorno d’autunno, Bartolomeo salì fino al punto più alto e panoramico del paese, il Ciglio della Torre (-‘U Cigghj ‘e ra Turr- un rione storico situato nel centro della città noto per le sue antiche viuzze e per le sue antiche leggende) dove c’era una chiesetta abbandonata e un campo di ginestre. Si sedette su un sasso levigato dal tempo. Guardò il cielo basso e sentì il profumo delle prime castagne. Fu allora che ebbe un pensiero che non aveva mai avuto prima. «Forse- disse tra sé - quel giorno in cui il Signore foggiò la Calabria, non concluse davvero il lavoro. Forse l’ha lasciata imperfetta perché voleva che noi, i suoi figli, fossimo artisti insieme a Lui».
Un colpo di vento sollevò le foglie. In quel suono, Bartolomeo sentì una voce, o forse un ricordo: quella frase detta tanto tempo prima, che ancora lo guidava come una stella: «Solo ciò che si ama davvero, si conquista ogni giorno». E capì che la Calabria, con tutte le sue spine, era un atto d’amore che non finiva mai. Un amore che non si spiega. Che si vive.
Gli anni passarono come passano le stagioni in Calabria: senza clamore, con la calma antica delle cose che non hanno bisogno di essere annunciate. Bartolomeo invecchiò in silenzio, come aveva vissuto. Ogni ruga sul suo viso era una strada percorsa a piedi, ogni capello bianco un inverno passato ad ascoltare i racconti del vento. Non aveva mai lasciato il paese, eppure sapeva del mondo più di molti che avevano girato l’oceano. Coltivava ancora l’orto, scriveva lettere – sempre a mano – e ogni tanto raccontava storie ai bambini seduti intorno a lui come ai piedi di un ulivo millenario. Non parlava mai per nostalgia. Parlava per amore.
Fu in un pomeriggio di primavera che Bartolomeo capì che la sua ora si avvicinava. Non c’era malattia, né tristezza. C’era solo un sentimento di quieta completezza, come se la sua anima avesse finito di camminare e fosse pronta a posarsi. Chiamò accanto a sé una bambina, la figlia della vicina. Si chiamava Achiropita (un nome importante, evocativo per la città in quanto l’Achiropita è la Madonna patrona di Rossano e della diocesi), aveva sette anni e due occhi neri che sembravano scavati nella notte. Le porse una scatola di legno intagliato, con un nodo inciso sopra.
«Dentro ci sono tutte le lettere che non ho mai spedito – disse. – Alcune sono per la terra, altre per chi ancora deve nascere. Non leggerle tutte subito. Aprine una ogni tanto, quando senti che la Calabria ti parla e non riesci a capirla».
La bambina annuì senza fare domande, come solo i bambini sanno fare. Bartolomeo le accarezzò la testa e le sussurrò: «Ricorda: Dio ha creato questa terra con le mani. Ma l’anima… l’ha lasciata a noi. Tocca a chi la ama davvero completare il miracolo».
Bartolomeo morì una notte di maggio, quando i gelsomini erano nel pieno della fioritura e il mare, laggiù in fondo, cantava piano. Non ci fu lutto, ma silenzio. Il paese non pianse: ascoltò. E poi venne l’alba. Una di quelle albe calabresi che sembrano fatte apposta per rinascere. Achiropita aprì la scatola. Prese una delle lettere e la lesse ad alta voce sotto lo stesso ulivo dove Bartolomeo si sedeva ogni sera.
«Se un giorno sentirai che questa terra ti graffia, non avere paura. È il suo modo di chiederti di restare. Se ti senti straniero, scava più a fondo: troverai le tue radici. E se mai penserai di andartene… prometti almeno di portarla con te».
Achiropita richiuse la scatola. Poi si voltò verso il paese, verso la valle, verso il mare. Sorrise. Aveva capito. Il capolavoro del Signore non era solo la Calabria. Era anche chi la custodiva. E ora toccava a lei.
***
Se ti ha parlato, se ti ha fatto venire in mente un luogo, un volto, una storia, portala con te. Che tu sia un elettore, un cittadino, o un futuro rappresentante della Regione, ricordati di Bartolomeo. Perché custodire la Calabria non è un dovere. È un atto d’amore.