L’Ulivo di Pietra
I pastori lo chiamavano così, perché sembrava scolpito dal tempo più che cresciuto dalla terra. Era un dono che ricordava a tutti che anche nei luoghi più duri può nascere la speranza
Sull’Aspromonte, in un piccolo paese che sembra aggrapparsi alla montagna come per non cadere, cresce un ulivo diverso dagli altri. Nessuno avrebbe immaginato che potesse sopravvivere lì, tra le rocce e i rovi, dove il sole arriva poco e il vento soffia forte, mescolando l’aria di mare con quella di montagna. Il paese è San Luca, e da sempre i suoi abitanti vivono sotto lo sguardo silenzioso degli ulivi.
La leggenda dice che fu un uomo misterioso a seminare l’ulivo proprio lì, mentre camminava tra le gole, i crinali e lungo i sentieri impervi del monte, lasciando cadere un seme ogni volta che la terra sembrava piangere. Quel seme trovò terreno duro, in un posto dove il sole arrivava solo per poche ore al giorno, e il vento di mare si mescolava a quello dei monti, ma decise di mettere radici, tra le spine dei rovi, tra sassi e fame diventando quello che oggi chiamano “l’Ulivo di Pietra”.
Le sue foglie erano d’argento e la sua corteccia, grigia e contorta, pareva scolpita dal tempo. Passarono gli anni, i secoli. I pastori lo chiamavano "l’Ulivo di Pietra", perché sembrava scolpito dal tempo più che cresciuto dalla terra. Dicevano che portasse fortuna a chi lo salutava con rispetto e che, nelle notti d’estate, se ti sedevi sotto i suoi rami in silenzio, potevi sentire la voce del monte.
Rossano fu il primo ad averlo notato, raccontano i vecchi. Un uomo dal passo lento e dallo sguardo distante, che amava camminare da solo, con il bastone in mano e il cappello sugli occhi, tra boschi e pietre, come se parlasse una lingua che solo lui capiva. Osservava gli alberi come parte della famiglia e parlava con le pietre come con vecchi amici. Quando scoprì l’ulivo, giovane e fermo tra le rocce, si fermò, gli mise una mano sulla corteccia grigia e contorta e gli disse semplicemente: «Resisti. Sei nato per ricordare». Poi si sedette accanto all’albero e restò lì fino al tramonto. Rossano e l’Ulivo di Pietra furono una cosa sola.
La gente del paese non sapeva molto di Rossano. Qualcuno diceva che non fosse nato lì, né in nessun altro luogo conosciuto. Alcuni sostenevano che fosse comparso una mattina d’inverno, scendendo con passo lento dai sentieri della montagna, dando la sensazione di essere una persona sospesa tra realtà e leggenda. Altri lo chiamavano “l’uomo che parla con le foglie”, perché spesso lo vedevano seduto sotto gli alberi, in silenzio, ad ascoltare il vento. Ed altri ancora raccontavano che un tempo era un pastore, ma che un fulmine lo aveva colpito mentre dormiva accanto a un ulivo solitario, e che da quel giorno non era più tornato del tutto uomo, né diventato del tutto spirito.
Aveva occhi scuri e una voce che usava di rado, ma che quando parlava sembrava portare con sé l’eco delle grotte e dei torrenti. Rossano non cercava compagnia, ma neanche la evitava. Se un vecchio lo salutava, rispondeva con un cenno; se un bambino si avvicinava, gli offriva una foglia d’ulivo secca, dicendo: «Tienila. Ricorda che sei figlio della resina e del vento».
Rossano non abitava in nessuna casa, ma ogni tanto lo si vedeva dormire in una grotta, o camminare all’alba verso i crinali. Alcuni dicevano che sapesse leggere i segni del tempo nelle vene delle foglie, e che conoscesse il nome segreto di ogni albero antico. Dormiva dove trovava riparo: una grotta, un anfratto tra le rocce, o qualche rifugio improvvisato sotto il cielo stellato. Una notte d’autunno, una donna del paese che tornava tardi dal lavoro lo vide inginocchiato sotto l’Ulivo di Pietra, con la fronte appoggiata al tronco. Non riuscì a capire se pregasse, dormisse o piangesse, ma giurò che l’albero sembrava respirare con lui, come se fossero una sola cosa.
Da allora, ogni volta che qualcuno lo incontrava nei boschi, Rossano diceva di andare dove l’uomo misterioso piantò l’ulivo. Rossano sparì per un po’, ma durante un’estate di grande siccità una bambina di nome Marianna salì il crinale fino all’ulivo in cerca d’acqua. Con le mani graffiate e i piedi nudi, si inginocchiò e pregò per la sua famiglia e per la terra assetata come le aveva insegnato la nonna. Poco dopo, una piccola vena d’acqua iniziò a sgorgare alla base dell’albero, un miracolo che restò nel cuore di tutti.
Da quel giorno l’ulivo non smise più di fare frutti, anche nelle estati più dure, anche quando tutto intorno moriva, e così negli anni, l’Ulivo di Pietra divenne un simbolo. Gli anziani raccontavano la sua storia durante le processioni, i giovani portavano una foglia nel portafogli quando partivano, per non dimenticare le proprie radici.
Di Rossano si persero le tracce, ma qualcuno giurava di averlo visto ancora, in silenzio, camminare tra i crinali, chinarsi a toccare il tronco dell’ulivo e poi sparire dietro le pieghe della montagna. Marianna, ormai anziana, raccontava ai nipoti che l’ulivo era un dono che ricordava a tutti che anche nei luoghi più duri può nascere la speranza. E i bambini, con gli occhi grandi, ascoltavano in silenzio, mentre il vento muoveva le foglie come pagine di un libro. E così, quando un giorno vide un uomo dagli occhi scuri sedersi accanto a lei, non si sorprese. I bambini si avvicinarono incuriositi, ma lui sorrise appena e si incamminò verso la montagna, lasciando dietro di sé un silenzio carico di memoria. Quando i bambini chiesero chi fosse, Marianna rispose: «Uno che torna ogni tanto, a vedere se l’ulivo respira ancora. Uno che non se n’è mai andato davvero».