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L'Augureddǝ, il piccolo Augure che si nascondeva tra gli ulivi

3 minuti di lettura

CORIGLIANO-ROSSANO - Nelle nostre campagne certe parole non sono solo termini dialettali: sono piccoli scrigni di memoria. Una di queste è il termine Augurddǝ, che oggi tra la sinteticità del mondo, delle sue declinazioni globali si è totalmente perso, perché nessuno sogna più, nessuno vive di magia, nessuno sembra più volersi emozionare. È un nome che a sentirlo sembra già di intravedere qualcosa di leggero tra gli ulivi, una presenza buona. E non a caso la sua origine è antica, molto più antica di quanto si creda.

Il termine, probabilmente, viene dal latino Augure, una figura che presso i Romani ricopriva un ruolo sacro e decisivo. L’àugure era il sacerdote incaricato di interpretare il volere degli dèi attraverso i segni della natura: il volo degli uccelli, i lampi nel cielo, i rumori inattesi, perfino il comportamento degli animali. Niente nella vita pubblica poteva accadere senza il suo responso: né una guerra, né un matrimonio, né la fondazione di una città. Era, insomma, il custode dei presagi, il lettore del destino. Da lì il significato esteso, letterario, di “profeta”, “indovino”, qualcosa che porta auspicio, speranza, fortuna.

Quando questa parola arrivò, tramandandosi in leggende e suoni, nella nostra cultura contadina, non rimase però così solenne. Il mondo contadino ha sempre avuto la capacità di prendere il sacro e trasformarlo in qualcosa di vicino, quotidiano, familiare. Così, con il passare dei secoli, l’àugure romano divenne l’Augurddǝ: non un sacerdote, ma un piccolo spirito benevolo. Non qualcuno che interpreta i segni del cielo, ma un esserino che i segni li porta. Un folletto minuscolo, vestito di rosso, che appare ai bambini soprattutto nei giorni che precedono il Natale. Niente paura, nessuna malizia: il suo compito è portare fortuna, protezione, abbondanza. Un augurio vivente, insomma.

È a questo punto della storia che entra in scena Nonno Isidoro, che da bambino aveva gli occhi pieni di luce e tanta fantasia. Ogni tanto racconta ai suoi nipotini quell'episodio che gli segnò il Natale del '58, quello che gli è rimasto nel cuore come una fotografia indelebile.

«Era inverno - racconta - quelli belli freddi e soleggiati, quando l’uliveto di Oliveto Longo era tutta la nostra vita. Io stavo con la nonna Matilde, che raccoglieva le olive con le pertiche e si sistemava il fazzoletto in testa per ripararsi dal vento di Tramontana che saliva dal mare. Io, invece, correvo tra gli alberi, perché un bambino si stanca subito di guardare i grandi che lavorano».

La voce di Isidoro qui diventa un po’ più bassa, come se tornasse davvero quel bambino. «Un pomeriggio, mentre il sole diventava arancione, vidi qualcosa che non scorderò mai. Su un ramo di un ulivo c’era seduto un bambino. Non era uno del paese, questo lo capii subito. Aveva una giubbetta rossa, accesa come il fuoco, e due occhi birichini che sembravano saperla lunga. Io mi avvicinai piano. “Chi sei?”, gli chiesi. Ma lui non parlò. Scese dal ramo senza far rumore e con un sasso disegnò la Campana per terra. Voi non sapete quante volte ho giocato alla Campana, ma quel giorno fu diverso. Giocammo insieme come se fossimo amici da sempre. Ridevamo, saltavamo… sembrava magia.»

I nipotini lo ascoltano rapiti. Sanno che ora arriva il momento in cui la storia cambia. «Poi mi voltai un attimo, forse per prendere un altro sasso… e quando guardai di nuovo, non c’era più. Sparito. Così. Senza un rumore, senza un ramo mosso. Come se fosse stato un sogno.»

Il nonno ride piano, con quella malinconia felice di chi ha fatto pace con il mistero. «Io corsi subito da vostra bisnonna Matilde. “Nonna! Ho visto un bambino sugli ulivi! Era vestito di rosso!” - Lei si fermò, mi guardò e capii subito che aveva capito. “Fijicè… quidd' 'unn'era nu picciulidd qualunquǝ. Era l’Augureddǝ. E si t’ha scert pròbbj mò, a ra vijilia e Natali, vuol dire ca t’ha portat' l’augurj ppe’ tutt l’ann chi vena”. - E sapete che fece? Mise subito la padella sul fuoco e mi preparò un piatto enorme di patatine fritte. Perché nelle nostre campagne, per dire grazie a uno spirito buono, si fa così: si cucina qualcosa di buono a chi ha ricevuto la visita».

A questo punto, i nipotini hanno gli occhi pieni di stupore, e qualcuno chiede sempre: «Ma nonno, e se l’Augurddǝ tornasse ancora?». Nonno Isidoro sorride e con quella saggezza che solo chi ha vissuto molto sa usare bene, risponde: «Ah, piccoli miei… tra gli ulivi, d’inverno, non si è mai soli davvero. A volte, la fortuna si mette ‘na giubbetta rossa e gioca alla Campana».

E per un attimo, anche chi ascolta è tentato di crederci davvero: che da qualche parte, tra un ulivo e l’altro, l’Augurddǝ stia ancora lì a guardare, pronto a portare un augurio a chi ha occhi abbastanza puri da vederlo.

Marco Lefosse
Autore: Marco Lefosse

Classe 1982, è schietto, Idealista e padre innamorato. Giornalista pubblicista dal 2011. Appena diciottenne scrive alcuni contributi sulla giovane destra calabrese per Linea e per i settimanali il Borghese e lo Stato. A gennaio del 2004 inizia a muovere i passi nei quotidiani regionali. Collabora con il Quotidiano della Calabria. Nel 2006 accoglie con entusiasmo l’invito dell’allora direttore de La Provincia, Genevieve Makaping, ad entrare nella squadra della redazione ionica. Nel 2008 scrive per Calabria Ora. Nell’aprile 2018 entra a far parte della redazione di LaC come corrispondente per i territori dell’alto Jonio calabrese. Dall’1 giugno del 2020, accoglie con piacere ed entusiasmo l’invito dell’editore di guidare l’Eco Dello Jonio, prestigioso canale di informazione della Sibaritide, con una sfida: rigenerare con nuova linfa ed entusiasmo un prodotto editoriale già di per sé alto e importante, continuando a raccontare il territorio senza filtri e sempre dalla parte della gente.