Il Pino, guardiano della Sila
Repaci aveva ragione: Dio diede alla Sila il pino. E con esso, le diede un’identità. Un’anima. Non un albero qualunque, ma un guardiano. Un tempio vivente

Si racconta che, quando Dio posò lo sguardo per la prima volta sulla Sila, vide una terra antica, silenziosa e maestosa, ma ancora incompleta. Le colline si rincorrevano in un susseguirsi d’onde verdi, i laghi brillavano come specchi d’argento, e l’aria portava con sé il profumo del muschio e della pietra. Ma qualcosa mancava.
Allora, Il Signore, con gesto generoso, aprì la mano e vi lasciò cadere il seme di un albero immortale: il pino laricio, alto, fiero, nato per sfidare i venti e il tempo. E così, nacquero le pinete della Sila.
Ogni mattina, quando il sole si alza dietro le creste dell’altopiano, le sue prime luci accarezzano le chiome dei pini. Le ombre lunghe si allungano sul tappeto d’aghi, e un silenzio sacro scende tra i tronchi dritti come colonne di una cattedrale verde. Un respiro percorre la foresta: è la voce antica della Sila.
I pastori lo sentono all’alba, i viandanti lo ascoltano lungo i sentieri bagnati di rugiada. Tra le cortecce, nei rami, nel sottobosco umido, si nasconde il battito della montagna.
Fu in uno di quei mattini, velato di nebbia, che Rossano tornò nella Sila. Non cercava: ricordava. Camminava lentamente, come se ogni passo dovesse risvegliare qualcosa sepolto sotto la terra o tra i rami. I suoi occhi, scuri come la resina, si muovevano attenti, e sembrava che ascoltassero più di quanto vedessero. Conosceva i nomi dei laghi – Arvo, Cecita, Ampollino, Vuturino, Passante, Savuto, Redisole – come si conoscono quelli degli amici d'infanzia. Ogni lago rifletteva un cielo diverso, con le nubi e le cime degli alberi, immobili come custodi silenziosi, ogni pino raccontava una stagione.
L’aria estiva profumava di resina e vento. In inverno, la neve ammutoliva tutto, ma i pini restavano: immobili, pazienti, sentinelle del bosco.
C’è un luogo, nel cuore della Sila, dicono i vecchi, dove i pini si radunano così fitti da sembrare un esercito antico. Lì, il tempo rallenta. È un tempo diverso, che non conosce fretta. La terra pulsa sotto i piedi, i funghi spuntano silenziosi, i cinghiali scavano nella notte e i lupi attraversano le radure come ombre. Chi sa fermarsi in silenzio, sente il battito della Sila: forte, profondo, come il cuore della Calabria stessa.
I bambini che crescono tra queste pinete imparano presto il linguaggio della natura. Capiscono il fruscio che annuncia la pioggia, il silenzio che precede la neve. Crescono con gli occhi pieni di verde e il cuore aperto.
Repaci aveva ragione: Dio diede alla Sila il pino. E con esso, le diede un’identità. Un’anima. Non un albero qualunque, ma un guardiano. Un tempio vivente.
E la Sila, oggi è ancora memoria viva. Ha visto passare civiltà, guerre, carestie, rinascite. Ogni pietra racconta storie: briganti, monaci, carbonai, contadini. E resiste. Come i suoi pini, che affondano le radici nella roccia e si slanciano al cielo, senza chiedere nulla.
E poi ci sono le stagioni. La primavera che accende il sottobosco con fiori dimenticati, l’estate che porta il profumo dei falò e il frinire delle cicale, il ronzio delle api tra i rododendri. L’autunno, con i suoi colori struggenti tinge i boschi di rame, oro e sangue trasformando le pinete in un sogno. E l’inverno, che tutto ammanta, e riporta la Sila al suo silenzio primordiale.
Così, chi entra nella Sila con rispetto, non torna mai come prima. Perché quel paesaggio non si guarda soltanto: si respira, si ascolta, si porta dentro.
Rossano non era un semplice viaggiatore. Era nato e cresciuto lì, tra i fischi dei pastori, il silenzio della neve e il profumo del pane cotto nei forni a pietra, con l’altopiano nei polmoni e la voce degli alberi nelle orecchie. Quando da ragazzo vagava nei boschi, dicevano che parlava da solo. Ma lui sapeva: non era solitudine, era dialogo. Il vento gli rispondeva. I tronchi scricchiolavano come anziani che raccontano storie. I funghi gli indicavano la via.
Ora, dopo anni lontano, era tornato, la Sila lo riconosceva. Nessuno sapeva il perché. Ma chi lo vedeva passare, intuiva che portava con sé una domanda, o forse una promessa.
Un vecchio carbonaro una volta gli aveva detto: «I pini sono come certi uomini: crescono lenti, ma durano. E quando li tagliano, lasciano l’odore del loro tempo». Rossano portava quella frase nel petto come un amuleto.
In un pomeriggio d’autunno, quando le chiome dei larici si tingevano di bronzo e il sottobosco profumava di terra bagnata, Rossano si fermò in una radura. Era un luogo dimenticato, un piccolo cerchio di luce tra i giganti verdi. Al centro, un pino più alto degli altri si ergeva come un re antico.
Si sedette. Tolse lo zaino. Tirò fuori un taccuino e una matita di legno. Annotò parole. Non poesie, non racconti. Solo respiri, frammenti dell’anima. Le chiamava «parole del bosco». Scrisse: «Qui, il tempo non scorre: si posa. Qui, la voce non parla: sussurra. Qui, non si cerca nulla. Ma si trova tutto».
Un fruscio tra i rami attirò il suo sguardo. Un cervo apparve oltre la radura. Fermo, immobile, come se sapesse. I due si guardarono. Nessuna paura, solo riconoscimento. Rossano sorrise. «Anche tu sei custode», mormorò.
Man mano che i giorni passavano, Rossano si addentrava sempre più nel cuore della foresta. Visitava i laghi uno ad uno, raccoglieva piccole pietre, pezzi di corteccia, piume cadute. Ogni oggetto era un segno, un ricordo, un gesto. Ne avrebbe fatto dono a qualcuno, un giorno. Oppure li avrebbe semplicemente custoditi, come si fa con le verità più intime.
I pastori iniziarono a parlarne. Lo vedevano camminare all’alba, sempre solo, sempre assorto, in silenzio. Ma quando lo salutavano, rispondeva con un cenno lieve e uno sguardo profondo, come se sapesse qualcosa che loro avevano dimenticato. «Lui non è tornato. Lui è sempre stato qui», disse un’anziana contadina al mercato di San Giovanni in Fiore.
Un giorno, nel cuore più profondo della Sila, dove i pini si radunano come un esercito immobile, Rossano si fermò. La luce cadeva a lame tra i rami. L’aria era ferma come in una cattedrale. Si sedette su una roccia coperta di licheni. Poggiò la mano sul terreno. Chiuse gli occhi. Lì, in quel punto esatto, suo nonno gli aveva raccontato per la prima volta la leggenda del dono di Dio alla Calabria. «Ascolta i pini», gli aveva detto. «Non parlano con la voce, ma con la presenza. Sono stati dati a questa terra per custodirla. Ora è il nostro turno».
Rossano sorrise. Non disse nulla. Rimase lì a lungo. Il vento si era fermato, il tempo anche. Si alzò solo quando il sole cominciò a calare tra i rami. Sotto la roccia lasciò una scheggia di legno di pino, levigata con le sue mani. Non era un’offerta. Era un segno. Un patto silenzioso con la montagna. Poi si alzò, e senza voltarsi, riprese il cammino. Chi lo vide scomparire tra gli alberi, giura che non lasciò traccia. Ma da quel giorno, ogni volta che il vento soffia tra i rami della Sila, si sente un sussurro nuovo. Come una parola appena nata. Forse è Rossano che passa ancora.