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Ricordando "Bommina", eroina nel silenzio, epopea e monumento di se stessa e delle donne che hanno fatto la storia

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CORIGLIANO-ROSSANO - Bambina Brunetti non è solo la più recente, tragica vittima della maledetta 106, quella strada che è un ossimoro strutturale inconcepibile e inaccettabile, in quanto statale, ma allo stesso tempo rionale; ad alta velocità, ma allo stesso tempo cortile delle tante abitazioni che vi si affacciano; ad altissima frequenza di percorrenza, ma naturale e necessario affaccio di bambini, ragazzi, uomini e donne che, davanti all’uscio, giocano, chiacchierano, spazzano o prendono aria.

E non è neanche solo la signora ultraottantenne, madre di un ragazzo - oggi in realtà uomo - diversamente abile, per il quale oggi la comunità tutta ha sentito, particolarmente, il peso di questa e altre diffuse fragilità, sapendolo, per le prime ore, solo di fronte alla gestione, emotiva, di questo assurdo, tragico evento. 
 
Avendo avuto, con la mia famiglia, la grande fortuna di conoscerla molto da vicino, sento forte oggi il bisogno di raccontare - di provarci, almeno - chi è stata “Bommina”, o “la Pupa”, come tutti la abbiamo sempre chiamata. 

Al suo nome, che, come per varie figure femminili dei nostri paesi, ufficializza al registro anagrafico quello che doveva in origine essere nato come tenero vezzeggiativo, ci eravamo tutti così abituati, da non associarlo più al suo significato. Così avviene spesso. E tuttavia, non si può certo dire che la vita le abbia mai consentito vezzi, tenerezze o delicatezze infantili a Bambina. 

Era originaria di Longobucco, e della gente dell’antico borgo di Temesen sintetizzava tutte le migliori doti: laboriosa all’inverosimile, con una capacità manuale e imprenditoriale fuori dall’ordinario e quella magia alchemica nel fare conserve e cucinare, che le faceva trasformare ogni cosa, anche la più semplice, in una pietanza dal gusto ineguagliabile, si fosse anche trattato di una fresa al pomodoro, che nelle sue mani diventava poesia pura e ristoro senza pari. 

Festa della Mietitura, 1 Luglio 2018, Masseria Mazzei. (Foto Nilo Domanico)

A Rossano era arrivata da tantissimi anni, mettendo su famiglia con un uomo che proprio non poteva andare bene al suo fianco, per motivi seri, inoppugnabili e concreti per i quali lei, pur sola e giovane donna con tre figli a carico, non pensò per un attimo di poter soprassedere. Erano i primissimi anni Settanta quando Bommina, pur con il minimo della formazione elementare, informatasi sulla legge appena entrata in vigore “sui casi di scioglimento del matrimonio”, si presentò davanti al magistrato per chiedere il divorzio. Lo raccontava spesso questo episodio, ma mai compiangendosi, semmai sorridendo su di sé, sulla vita e sulla risposta che si sentì dare: “e che cos’è questo divorzio??”. Cos’è e cosa non è, non si scoraggiò minimamente e, nella certezza di star facendo il bene suo e di quei figli che sempre protesse e allevò con sobrio, ma incrollabile amore, probabilmente il suo fu uno dei primissimi casi di applicazione della legge 898 del primo dicembre 1970 sul territorio ricadente sotto il nostro cittadino tribunale. 

Ebbe tre figlie belle come le rose, Fina, Maria e Silvana, che negli anni, prima l’una, poi anche l’altra, andarono ad infittire le file dell’emigrazione verso le fabbriche del Nord; e poi quel suo Saverio, dolce, indifeso e sempre con lo stesso sorriso materno stampato in viso, sebbene segnato da maggiore fragilità e minore consapevolezza della vita. Sempre al suo fianco, da madre scrupolosa e forte lo ha assistito e sostenuto, spronandolo, con intelligenza e stimoli, a camminare nel suo continuo e progressivo percorso verso l’autonomia, ma allo stesso tempo coccolandolo, pur con quell’approccio essenziale e senza smancerie, tipico della sua generazione e di quella cultura secondo cui “i bambini si baciano solo di notte”. 

Li crebbe da sola, affrontando con coraggio, forza incrollabile, sagace ironia e un’intelligenza vivida e sempre risolutiva, periodi di stenti e sacrifici, in cui pane e olive -come raccontava spesso- erano stati a lungo il principale cibo portato sulla parca, ma onestissima mensa. Ma i lavori continui in campagna, i servizi con cui prestava la sua sapiente opera, facendosi amare e apprezzare sempre, le qualità indiscutibili del suo fare e del suo sapere esperienziale, la portarono via via a costruire per sé e per la sua famiglia una posizione più che rispettabile. Mettendo da parte guadagni e conquistandosi fiducia per la sua serietà, acquistò una discreta estensione di terreno, dove non c’è centimetro che non sia valorizzato e coltivato al meglio. Ulivi secolari di Dolce di Rossano per la provvista olearia sua e da mandare al Nord; ortaggi da fare invidia, in tutte le stagioni, ai migliori coltivatori specializzati; pollaio con galline felici e uova sempre fresche; porcile con maiali pasciuti e cresciuti con ogni scarto ben riciclato e poi destinati a trasformarsi in impareggiabili salami e attenzioni per gli amici divennero non solo il regno della sua autarchia economica, ma anche psicologica, come miglior antidoto contro le tristezze della vecchiaia che avanzava e di quella solitudine, compagna, ben accolta, di tanti anni. 

E su quel terreno ha tirato su con le sue mani -e non per metafora, ma realmente- la sua bella e dignitosissima casa. Muratore non era, certo, ma manovale poteva farlo e lo fece! E così, con sudori e con capacità ciclopiche, in poco e con poco realizzò una di quelle palazzine che, su ben tre livelli, costeggiano quella forsennata, e a lei fatale, Statale 106, in contrada Toscano: zona giorno al piano terra, solare, accogliente e aperta sul retro su quel meraviglioso giardino coltivato; zona notte e relax ai piani superiori, pronti a diventare più abitati e rumorosi ogni volta che le figlie, con famiglia, tornavano da lei. 

Ha sempre avuto la capacità, Bommina, di stare accanto a persone anche molto diverse da lei, ma sempre interagendo con acume e rispetto, riuscendo a guadagnarsene altrettanto. Mai invadente, mai inopportuna, mai fuori posto, eppure sempre vigile e partecipe delle vicende altrui, fossero le tristi vicissitudini inferte dalla sorte, in cui, immancabile, era silenziosamente presente e vicina, tra le prime; o fossero le gioie regalate dalla vita, sentimentali, o di lavoro o di altro: lei osservava, stava accanto, consigliava a suo modo, sosteneva sempre, c’era e, senza retorica, generosamente gioiva e scherzava con simpatia e autoironia. 

E poi insegnava, anche quando non sapeva di starlo facendo. Da lei penso di aver imparato, insieme ad altre cose, tutto, o quasi, il dialetto che conosco: poco in verità, forse, ma di quello capendone il senso profondo; perché la lingua, si sa, non è mai solo assemblaggio di termine neutri, ma sempre serbatoio di valori e idee. Così i punti cardinali della sua mappatura del mondo, la sua geografia esistenziale quindi, variavano sempre tra due alternative, entrambe facenti perno sulla propria persona o posizione: cap’a irt’ o cap’a pennin’. Insomma, rispetto a dove ti trovi, devi solo scegliere se per il tuo percorso (di vita?) compiere un cammino in salita o in discesa. E, comunque sia, ti metti e lo compi!

La bilancia della sua algebra culinaria si faceva beffa di ogni rigida applicazione libresca, consegnando, invece, tutto al buon senso e alla pratica: per i maccarun’ a ferrett’, o per la pasta e minestra o per le salsicce (alcuni tra i suoi mille capolavori) non c’era ricetta o misura preconfezionata, ma, in onore di quella flessibilità oggi tanto osannata, la sua risposta al “Bommì, ma quanto ce ne devo mettere?” è sempre stata un sacro “Quant’ si’ nne pija”, rispetto al quale dovevi per forza capire che la vita va vissuta attimo per attimo, con quella attenzione, capacità di giudizio e discernimento, che Guicciardini aveva chiamato (pensando ad altro, magari) “discrezione”. 
    
Per questo e per tanto altro che non sono riuscita a raccontare, Bambina Brunetti è sempre stata tenuta in grande considerazione veramente da tutti. Credo che nessuno mai l’abbia sentita lamentarsi per un suo problema o chiedere aiuto; credo che mai abbia sprecato il suo tempo in ciance e pigrizia; credo che non sapesse cosa significasse sprecare energie ed attenzioni in pettegolezzi e invidie; credo che nessuno abbia bussato alla sua porta senza riceverne un buon caffè, sorrisi e tanta simpatia; credo che mai abbia preso una pillola o frequentato ospedali; credo che mai una donna come lei potrà tornare ad abitare la nostra città! 

Cosicché, nel tempo, negli anni, Bommina - o “la Pupa”, se volete - si è guadagnata la fama di un mito, di un vero e proprio monumentum, che, come suggerisce la parola, ha rappresentato col suo esempio - e deve continuare a rappresentare con la memoria della sua storia che va preservata e tramandata - un monito per tutti quanti si sentono vittime di un mondo che non li capisce, si vestono di giudizi e lamentele, disprezzano la fatica, misconoscono l’etica del sacrificio, si lamentano o arrendono alla prima difficoltà, si perdono in vezzi, smancerie, maldicenze o meschinità. 

È per questo che credo fermamente che il suo patrimonio di memorie e racconti, il suo esempio, la sua vita, il suo nome debbano rimanere vivi e attivi nella nostra comunità: epopea di se stessa e delle donne semplici, ma straordinarie, battagliere, coraggiose e dignitose, che devono sempre di più riempire le pagine dei nostri libri di Storia e comparire nella toponomastica di una città che non può essere fatta solo di signori e intellettuali, ma deve anche dare spazio, voce e riconoscimento a figure le cui storie urge raccontare e ascoltare molto più spesso di quanto non avvenga.

Alessandra Mazzei
Autore: Alessandra Mazzei

Diploma classico, laurea in Lettere classiche a La Sapienza, Master in Pedagogia, insegue una non facile conciliazione tra bios theoretikos e practikos, dimensione riflessiva e solitaria, e progettualità concreta e socialmente condivisa. Docente di Italiano e Latino, già Assessore alla Cultura e Turismo di Rossano, impegnata in diverse associazioni socio-culturali, ma, prima e più di ogni altra cosa, mamma, felice, di Chiara Stella, Gabriele e Sara Genise. Ha grande fiducia nelle capacità dei giovani, degli studenti, di quelli che poi restano e di quelli che vanno pensando un giorno di tornare. Spera di poter contribuire, insieme a loro e ad amici ottimisti, alla valorizzazione di questa terra di cui sente da sempre la forza delle radici, accanto al bisogno di paesaggi culturali ampi e aperti. Ama la scrittura, che vive, al pari dell’insegnamento, come itinerario di ricerca e crescita personale, da coltivare in forme individuali e collettive.