'U lavrə e il pianto 'e ri quattr' Lonivucchis: declinazioni del lutto di un tempo passato
Novembre è per antonomasia il mese della mestizia. Un periodo di nostalgia un tempo cadenzato da riti antichissimi che stanno per lasciare il posto ad una "rappresentazione" del dolore più intima e meno "spettacolare"

Con l’approssimarsi del mese di novembre, arrivano i momenti della mestizia in ricordo dei nostri cari che non sono più con noi fisicamente, ma lo sono nei nostri ricordi più intimi.
Almeno una settimana prima del due novembre in tantissimi si recano nei cimiteri per mettere ordine vicino alle dimore eterne delle persone amate, pulire e portare fiori e piante. In questi giorni anche la tristezza la fa da padrona nelle nostre menti in ricordo dei nostri cari.
In questi giorni sembra quasi di rivivere il lutto di quando è avvenuto il distacco terreno, fosse anche molto distante nel tempo.
La celebre poesia di Totò in questi giorni torna sempre in mente per ricordarci che la morte è “na livella” che riporta tutto nelle giuste dimensioni dove ricco e povero non hanno più motivo di confrontarsi.
Il lutto nelle nostre zone non è vissuto sempre allo stesso modo. Cambiano i tempi, cambia la moda e cambiano anche i modi di vivere il lutto.
Nel secolo scorso non era raro incontrare persone, particolarmente anziane, bardate con tanti segnali luttuosi. Gli uomini che avevano una dipartita in famiglia avevano barba lunga, cappello con la falda nera, cravatta e bottone sul cappotto o sulla giacca sempre rigorosamente nero; le donne tutte vestite di nero, portavano anche le calze e la veletta, senza nessun filo di trucco o capelli curati dal parrucchiere.
Erano questi i segni esteriori per esprimere il proprio dolore.
Dolore che era “obbligatorio” evidenziare particolarmente nel giorno dei funerali di un proprio congiunto; “u lavuru” era una cantilena nella quale si declamavano le qualità del morto, specialmente quelle morali.
Non me ne vogliano gli amici di Longobucco, ma un modo di dire molto diffuso nel rossanese era quello di affermare che il defunto lo hanno pianto quattro longobucchesi. Le donne del paese presilano infatti, erano brave ad intonare nenie, anche in rima, per accompagnare i defunti nell’ultimo viaggio e quelle più “brave” si scioglievano i capelli ed in qualche caso si graffiavano anche il viso.
Da questo è scaturito anche un anatema da lanciare verso i propri avversari: “chi ti vone cianciri quattro lanivucchise (che ti possano piangere quattro longobucchesi)”.
Molte similitudine delle lamentele ai nostri funerali esistono con le canzoni tradizionali portoghesi; chi ha avuto modo di sentire “il fado (il fato)” lo ha paragonato ai funerali delle nostre zone. I portoghesi, al contrario degli spagnoli, sono tradizionalmente nostaglici. I sociologi lo hanno spiegato col fatto che avendo l’oceano davanti a loro e le sierre che li dividono dalla Spagna e dall’Europa, sono stati presi da questa tristezza che è rimasta nel loro modo di essere.
Il periodo successivo alla dipartita del congiunto era segnato anch’esso da segnali di tristezza: non si accendevano la radio e la televisione, in alcune famiglie anche per più di un anno, il sorriso spariva dal volto di ognuno, anche dei bambini ed era bandita ogni occasione di festa come il Natale, compleanni o onomastici.
Nel giorno del venerdì Santo e del due novembre, fino a pochi anni fa, anche radio e televisione trasmettevano esclusivamente musica da camera e solo i notiziari.
Fortunatamente queste antiche tradizioni stanno lasciando il posto ad un comportamento più personale e meno appariscente; ognuno vive il proprio dolore interiormente, senza dover per forza dimostrare quello che si ha dentro.
Oggi tutto viene vissuto dignitosamente nel proprio intimo, lasciando da parte ogni esteriorità che spesso aveva un sapore falso.