Nella gabbia di Gaza, un passo prima dell'inferno dove vivono bambini
A tu per tu - di nuovo - con Vincenzo Fullone. La sua storia interrotta passa dalla Palestina. Nel 2013 un'esperienza segnante: «Noi calabresi siamo uguali ai palestinesi, non c'è Stato qui e non c'è Stato lì» - PRIMA PARTE
Sono le tre del mattino. Fuori è buio pesto. Sulla Statale 106 non c’è un’anima viva; c’è lo spirito, però, di tanti che su questa strada hanno infranto sogni e speranze: chi in una curva, chi su un guardrail, chi in una cunetta. Tutta gente normale che aveva una sua storia e che l’ha sacrificata sulla maledetta strada della morte. La nostra guerra, la guerra quotidiana dei calabresi della costa occidentale. Mi sto spostando da Rossano per andare a Mirto di Crosia, 15 kilometri più a sud.
Lo stereo passa in loop My Universe dei Coldplay [And you make my world light up insid]; ad un tratto irrompe l’inforadio. È il giornale delle 3. La notizia da qualche giorno è una e una soltanto: il conflitto che sta massacrando ebrei e palestinesi in quella striscia di terra. Un bollettino di missili, carri armati, colpi esplosi, gente rapita, teste sgozzate e, poi, morte. Tanti morti. A migliaia, in poche ore. Orrore. Orrore infinito. Eppure quel mio viaggio di 15 kilometri è legato a doppio filo a quello che sta succedendo in quelle ore, sull’altra sponda del Mediterraneo.
A Mirto mi aspetta Vincenzo Fullone. Sta rientrando in pullman da Napoli. Lo cerco per farmi raccontare una storia. La sua storia. Non quella legata ai fenomeni mariani di fine anni ’80; ma un’altra – altrettanto mistica – che va dritta all’inferno… in terra. La storia del suo viaggio in Palestina. Esattamente dieci anni fa. Non un pellegrinaggio, nemmeno un tour storico-culturale, ma un’esperienza lunga 8 mesi condita di vissuto, speranze e paure.
La strada si fa largo sotto le ruote della mia auto e in lontananza vedo il ponte di Trionto, che da queste parti è conosciuto anche come il ponte Mussolini. È il segnale che siamo in prossimità della nostra meta notturna. Su una delle tre campate di quel ponte non passa mai inosservato, a chi ci passa, il disegno della bandiera Palestinese e al suo interno la scritta Crosia is Gaza, reminiscenze di rivendicazioni e battaglie giovanili combattute con la kefìah al collo, ai tempi di Arafat. Quel murale è lì da quasi 20 anni!
Arrivo in piazza Guido Rossa. Vincenzo è lì con il suo trolley, in t-shirt, pantaloncini e sandali. Nonostante sia metà ottobre fa caldo, anche di notte. U’ guagnun e Crusia, come lo chiamano ancora oggi in tanti nonostante sia ormai un uomo di cinquant’anni, mi sta aspettando, stanco ma vigile. Ha una storia da raccontare. Io, invece, ho portato birra e domande.
Ci sediamo a una delle panchine della piazza, sotto un albero senza ombra. E iniziamo a parlare. È lui che mi dice subito, con il capo chino: Marco, hai visto che sta succedendo? Con il tono di chi il dramma se lo aspettava da tempo; come una polveriera circondata da dinamite, pronta ad esplodere. E che è deflagrata in tutta la sua drammatica potenza. Già! - Gli rispondo. Ma gli aggiungo con tono fermo: non sparare sentenze affrettate. La verità non sta mai solo e tutta da una parte. Poi alza la testa, fissa lo sguardo nei miei occhi, quasi a voler prendere la mira, e mi fa: Jamm’ja, ‘ncumincia cu s’intervista!
Il mio, di fatto, è un soddisfare curiosità. E la prima cosa che chiedo a Vincenzo Fullone è Perché? Cosa lo spinse nel 2013 a scendere a Gaza, a vivere in una terra che per antonomasia è il confine del mondo, un passo prima della bolgia dantesca; un rettangolo di terra arida, desertica affacciata sul Mediterraneo, lungo 40 kilometri e largo appena 6, dove vivono quasi 3 milioni di persone. Non per niente si chiama Striscia di Gaza. Perché questa esperienza estrema?
La risposta è tutta una filosofia del cammino dell’uomo che dice di aver conosciuto la Verità, quando era bambino, in quelle rivelazioni oltremondo che gli fece la Vergine della Pietà in quella chiesetta di Crosia (ne parlai qui), e che dopo allora si è trovato a combattere nel guado terreno, tra bene e male, in una storia interrotta. «Sono io stesso una terra di confine» – dice contraendo l’anima. «In realtà – aggiunge - sono andato a Casa perché sentivo che dovevo contribuire a qualcosa, dovevo essere presente lì. Quando da bambino ho letto Anna Frank, ho promesso a me stesso che se fosse riaccaduto io non sarei rimasto in silenzio. E a Gaza sta riaccadendo». «Sta riaccadendo» ripete. «Sono stato lì per 8 mesi. Ho vissuto come un palestinese di Gaza; non ho vissuto in edifici che in qualche maniera “sono edifici protetti”. Sono stato nei vicoli. Con la gente».
Sì, ma la scintilla che ti ha detto facciamo i bagagli e andiamo? «Mi ha spinto a partire la situazione politica che si viveva in Italia. Mi sentivo soffocato, sentivo che la mia idea di libertà, tutti i principi che sono alla base della democrazia, come la scuola pubblica, la sanità pubblica, venivano meno, quindi avevo necessariamente bisogno di trovare un luogo dove io potessi…potessi essere simile a questo luogo».
Ed è qui, doveroso – da parte di chi scrive – fare un inciso sulla straordinarietà di Vincenzo Fullone, al netto di tutte le opinioni che si possono avere su un personaggio sicuramente controverso e divisivo. Vincenzo è una persona carismatica e trascendentale, che ha attraversato seraficamente – tra i tanti confini della sua vita – anche quello dell’omosessualità. Un uomo senza Patria, direbbe Kurt Vonnegut, se non quella del suo spirito. Un nomade in cerca di Pace.
Vincenzo – continuo - Tu sei un occidentale, figlio di una società che si è evoluta, che, appunto, è andata anche oltre il confine dell'etica e della morale. Come ha fatto uno come te ad essere “accettato” dai palestinesi? «Guardando nel mio io, non credo di rappresentare una società che ha superato il confine dell’etica e della morale». Poi si spinge oltre, capisce che il mio riferimento non provocatorio si riferiva all’etica sociale, quella strettamente legata al politically correctì. «Sì, in realtà forse la mia società l’ha oltrepassato questo confine, ma io per fortuna mi sento (sorride) un sopravvissuto. Quindi per me andare a Gaza…e come essermi trovato in una nuova casa». E per farmi capire questo concetto di “casa” Vincenzo fa un esempio molto semplice che da un senso anche a quelle scritte viste poco prima sul ponte Trionto. «Qui (intesto come coordinata geografia della Calabria orientale, Sila Greca, Crosia…) non c’è Stato come lì non c’è Stato». In Calabria non c’è lo Stato di fatto (mancano servizi e quei pochi che ci sono vengono continuamente depredati), a Gaza non c’è lo Stato formale e non c’è nulla. «Non ho visto nessuna differenza, Ecco perché “Crosia is Gaza” e da Gaza risposero “Gaza is Crosia” (con un altro murales)… In qualche modo ci assomigliamo, ci sentiamo simili». Da qui la risposta alla mia domanda «Quindi sono arrivato là e non mi sono sentito assolutamente figlio di un Occidente così evoluto… Sono andato là per rendermi utile, quindi non c’è stato assolutamente bisogno di adattarmi al loro pensiero e loro al mio pensiero. A Gaza la gente è molto evoluta per certe cose. Nel senso che sono chiusi in quella gabbia e alla fine cercano di capire cosa accade fuori e cercano soprattutto di evolversi. A Gaza sapevano tutti che ero omosessuale. Non ho mai vissuto (sorride ancora Vincenzo) nulla di così tragico e così problematico per la mia omosessualità. Assolutamente». Paradossale, in una società ancorata con un un macigno all’etica religiosa. - fine prima parte