"EssereStato" il ricordo del rossanese Roberto d'Amico, uomo della scorta del pool di Palermo
A trent'anni dalla scomparsa dei giudici Falcone e Borsellino, una manifestazione al Parco della Musica a Roma per ricordare il lavoro dell'antimafia attraverso le testimonianze di colleghi e uomini della scorta
ROMA - «Termina un grande pomeriggio: tra finzione e realtà, abbiamo raccontato un periodo storico importantissimo per il nostro Paese. Una sala gremita e partecipe che, nel ricordo di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli uomini della scorta è stata testimone di quello che, per noi, vuol dire EssereStato»
Queste le dichiarazioni degli organizzatori dell’evento con cui è stato reso omaggio agli uomini che hanno difeso lo Stato anche con l’estremo sacrificio di sé, attraverso l’incontro avvenuto domenica 27 marzo, presso l’Auditorium Parco della Musica a Roma, nel trentennale della loro prematura, tragica scomparsa. Evento a cui hanno partecipato ospiti importanti del mondo cinematografico e insieme a servitori dello Stato che, con Falcone e Borsellino, hanno combattuto contro la mafia.
Partendo, dal cinema poliziesco che, dagli anni Novanta, è stato trattato l'argomento oggetto della manifestazione, con un dibattito ed una proiezione coinvolgente e toccante.
Un format particolare che sta facendo parlare di sé soprattutto per la modalità con cui è stato sviluppato e anche perché tra gli ospiti del parterre, era presente un rossanese, Roberto D'Amico, ex sottufficiale dell'Arma dei Carabinieri di scorta ai magistrati Paolo Borsellino e Giuseppe Ayala, quest’ultimo, anch’egli presente tra gli ospiti.
Sono inoltre intervenuti Lorenzo Matassa, magistrato e autore di importanti testi dedicati alla Sicilia, Claudio Fragasso, regista di Milano-Palermo solo andata e Palermo-Milano il ritorno e Maurizio Matteo Merli, attore nella pellicola Palermo-Milano il ritorno.
Ricordata durante l’intervento dei relatori, la vita di un rossanese carabiniere che è stato un uomo delle scorte dei magistrati di Palermo.
Tra le esperienze condivise con il pubblico, molto toccante quella di Roberto D’Amico, perché la sua, mette in evidenza l'animo di un uomo nato con l'Arma e con la divisa, figlio di un sottoufficiale dei Carabinieri che ha tracciato il suo vissuto. La testimonianza di D'Amico è un punto di vista poche volte espresso, quello degli uomini della scorta dei magistrati sempre sotto la minaccia di attentati: «Avevo vent’anni e, come i miei colleghi, sentivo la tensione serpeggiare sempre, in ogni cosa che si faceva. Il senso del pericolo era una costante che sovrastava la stessa paura che si poteva sentire. Forse per questo nessuno di noi si rendeva conto del rischio che correvamo ogni giorno, ogni ora, per proteggere gli uomini che scortavamo».
D’Amico parla con la voce un pò rotta dall’emozione, perché in quegli anni, essere l’ombra di Paolo Borsellino, significava non avere mai la certezza di ritornare a casa sano e salvo: «Facevamo il percorso aeroporto Tribunale, perché quelli erano gli anni dell’aula bunker, ad occhi chiusi e quando la macchina rallentava sapevamo che ancora una volta ce l’avevamo fatta, il magistrato era stato protetto a dovere e noi avevamo assolto al nostro compito nel migliore dei modi. Ma quei tragitti da percorrere, erano sempre un punto interrogativo, sapevamo come partivamo ma mai come e se, saremmo arrivati a destinazione».
Gli uomini della scorta di queste grandi personalità, erano l’ombra di chi proteggevano e pagavano a caro prezzo il senso del dovere nei confronti della divisa che indossavano: «Non avevamo vita privata, non potevamo avere contatto con nessuno, neanche con i nostri colleghi, per motivi di sicurezza. Vivevamo isolati da tutto e tutti, proprio come i magistrati che scortavamo, che erano diventati i nostri confessori, la nostra famiglia».
Un’esperienza forte quella raccontata dall’ex sottufficiale dei carabinieri: «Per smorzare la tensione che accumulavamo, scherzavamo tra di noi dicendo a chi della squadra lasciavamo i nostri beni. Tipo la macchina nuova, in caso succedesse qualcosa, perché ogni giorno nessuno era mai certo che a fine servizio, sarebbe ritornato in caserma con le proprie gambe».