L'ostinazione del "però" che continua a farci perdere il sogno dell'avvenire
Sono i saccentissimi "però" a frenare le prospettive di sviluppo della Calabria del nord-est; sono stati gli sciaguratissimi "però" a farci perdere l'ultimo treno della grande provincia di Sibari
C’è sempre un maledetto “però” che limita, inibisce, frena. Lo si infila ovunque, in ogni iniziativa, performance, manifestazione di qualsiasi genere. È la congiunzione avversativa più utilizzata quando manca la volontà di condividere, accogliere, sostenere (pienamente) un qualcosa. Un modo elegante (non troppo) per sottrarre importanza alle cose, ridimensionarle, tirarle giù. Il “però” come atteggiamento di supponenza dal quale traspare indisponibilità e, a volte, anche un pizzico di malizia. È la natura umana.
Ho preso in prestito questo, che è un pensiero del giornalista Attilio Sabato, direttore di Tele Europa Network - che ringrazio e con il quale mi scuso per la “furtiva” captatio – per sottolineare un altro concetto che sta nel processo di consapevolezza a cui è chiamata, ormai senza alcuna possibilità di deroga, la Calabria del nord-est: l’assenza di coraggio nelle scelte.
Un “però” alle nostre latitudini, insieme ai suoi perché, da sempre significa “decidere di non decidere”, di mettere di ostacolare il progresso dell’avvenire, ostentando una pericolosa saccenza.
È dai “però” che, ad esempio, la nostra agrumicoltura di eccellenza non ha mai sfondato sui mercati. Perché “Sarebbe bello fare un consorzio delle Clementine di Corigliano-Rossano, però nessuno dà ai produttori la garanzia di un guadagno equo e sicuro”. E certo! Se mai parti, mai arrivi!
È dai “però” che sanguinano ancora di responsabilità che qui non si è mai riusciti a dare seguito al sogno identitario di una Provincia. Io ero un adolescente entusiasta quando, verso la metà degli anni ’90, ci fu l’ultima sfornata di Province in Italia. All’epoca doveva nascere la Provincia della Sibaritide con capoluogo a Sibari. Eppure allora, peccando di miopia politica e di un immaturo campanilismo, i nostri rappresentanti istituzionali locali si opposero a una bella idea. “Bella la provincia di Sibari, però il capoluogo dev’essere Rossano, anzi no, Corigliano…” anzi, niente. Non se ne fece nulla. E fu il treno più importante e rivoluzionario che quella classe politica ci fece passare sotto il naso, per il solo gusto della supponenza, che cita il direttore Sabato, e per quella mancanza di visione che ancora oggi – purtroppo – continua a rimanere la più grande palla al piede di questo territorio.
Da quella diatriba tribale tra Corigliano e Rossano contro loro stessi, contro Sibari (Cassano Jonio) e contro tutto il territorio, si innescò un processo di decadimento demografico e di servizi che ancora oggi paghiamo a caro prezzo. Non ce le possiamo dimenticare queste cose.
Perché quello che siamo oggi, nel bene e nel male, ha una matrice chiara che fonda radici in anni e anni passati al seguito di una classe dirigente, politica e burocratica, che non è stata capace di difendere né l’autodeterminazione tantomeno le aspirazioni, i sogni e le legittime rivendicazioni di questo territorio.
Corigliano-Rossano, la città fusa, non è altro che il dolce “ripiego” alla grande provincia di Sibari. Un passo in avanti, un no a nostalgici torcicolli, una benedizione per questa città e per l’intero suo comprensorio che, soprattutto alla luce di come stanno andando le cose in Europa e in Italia nell’ultimo decennio, senza la resistenza di questa nuova entità demografica e comunale, sarebbero stati costretti ad un velocissimo declino. Saremmo diventati terra di passaggio. Nulla più. E non ci avrebbero lasciato nemmeno la dignità di barattare i nostri imperituri “però” con una speranza.
Di questo passo, però (mo ci vo'!), prima o poi approderemo tutti a Macondo; perché così - in saccenza - ci attendono "solo" cent'anni di solitudine.