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Il triangolo di parole, illusioni e verità in un teorema che non funziona

3 minuti di lettura

Nei racconti familiari o amicali che riempiono i momenti rilassanti di uno stare insieme appagante e ricreativo, ricorrono spesso episodi e aneddoti divertenti o commoventi, in ogni caso tali da colpire fortemente, attraverso i sensi, l’emotività e costruire quel patrimonio di memoria futura che rappresenterà, nel tempo, uno degli elementi più solidi di comunanza, di riconoscimento che rinforza l’appartenenza, il sentirsi facente parti di un gruppo in modo unico e irripetibile.

C’è sempre qualcuno più bravo di altri a raccontare e ci sono sempre i tanti che gioiscono, con gratitudine, nel sentire quel racconto ripetersi, con punti di snodo che non possono essere tralasciati -pena la protesta di massa- e curiosità sempre nuova nello scoprire, eventualmente, note inedite di colore, ulteriori particolari, dettagli che, se pure mancano alla memoria, possono ben essere integrati. Inventati.

Ecco, qui sta il punto. Mi è capitato fin da bambina -colpevole una mia visione della realtà allora rigidamente divisa tra verità e finzione- che riconoscendo come inventati alcuni passaggi, se non addirittura l‘episodio in sé, mi sono sentita infastidita. Addirittura ingannata. Per me e per tutti gli altri. Ovviamente, la mia sensazione era esagerata, forse fuori luogo, perché in quei contesti si trattava di situazioni innocue, non finalizzate ad altro che non fosse il puro intrattenimento. Ma a me capitava di avvertire montare il fastidio, perché ci percepivo la potenzialità di qualcosa di più grande, anche se allora non riuscivo a capirlo con chiarezza.  Certo, in più di una occasione sarei stata lì lì per interrompere quell’idillio di gruppo e dire cosa pensavo. Ma poi mi sono sempre fermata appena un attimo prima di proferir parola, per una fortunata intuizione del linciaggio che mi sarei di certo guadagnata. Perché gli altri si divertivano.

Analizzando la situazione, il fatto è che si crea un triangolo i cui vertici sono l’affabulazione sapiente e accattivante del narratore; la percezione emotivo-sensoriale degli astanti, appagati dall’ascolto aproblematico; e la discontinuità di un uditore che non sa pienamente gioire, non si abbandona ai sensi, perché (di certo inopportunamente!...?) si pone il problema della veridicità o meno del racconto.

 Il triangolo è tra la parola raccontata; l’ascolto ingenuo (o più saggio e scaltro?) di chi si rifugia al protettivo calore delle illusioni o dei (benevoli?) inganni; e la severa rigidità di chi (scaltro o ancora più ingenuo?) insegue la verità.

Logos, Maya e Aletheia.

In qualche pigro pomeriggio autunnale, mi sono cimentata in un lento esercizio mentale, creando di volta in volta contesti, ruoli e volti differenti ad occupare quei tre vertici. E ho pensato che la questione non è così tanto irrilevante, ma che è forse una di quelle macrocategorie storiche che si delineano costantemente, pur se con le fisiologiche varianti, nel secolare arrotolarsi dei cicli, dei corsi. E dei loro innumerabili e spesso inconsapevoli ricorsi.

L’ho immaginato nelle relazioni personali sentimentali; l’ho trasferito nelle corsie di un ospedale; l’ho con paura crescente fatto affacciare nelle aule scolastiche o universitarie; l’ho infine traslato, visto, sentito nelle piazze affollate di tante città, o dietro un’inquadratura televisiva di emittenti nazionali, o nelle più moderne versioni social adottate anche per fini istituzionali o propagandistici.

L’ho ogni volta riconosciuto questo triangolo, ma, certamente pessima discepola di Pitagora, a me il teorema non torna mai, perché la somma dei quadrati costruiti sui cateti della parola artatamente mistificata e della percezione sensoriale di chi ascolta (divertito, spaventato, illuso, entusiasmato…), non ha mai dato un quadrato unico e grande di soddisfazione e gioia, ma solo una grande area di paura e senso di fragilità diffusa.

Mi salta sulla tastiera una frase di James Hillman, in cui il filosofo americano, riprendendo concetti ben più antichi, ricorda che le parole possono davvero tanto, in quanto capaci di modificare la realtà; far esistere e far cessare di esistere; plasmare e modificare la struttura e l’essenza del reale. Nei secoli le tecniche sono rimaste sempre le stesse, passando dal negare determinati problemi, all’omettere informazioni, anche quando essenziali, al mistificare le cose, come chi controlla instillando paure esagerate o procedendo ad un vero e proprio confezionamento di notizie che, in quanto ripetute e riconosciute da tanti, acquisiscono a tutti gli effetti lo statuto di verità.

Tra le letture estive suggerite agli studenti, e riprese in questi giorni di inizio anno, ho scelto 1984 di Orwell. Nulla di più attuale e necessario per ragionare non solo di totalitarismi post bellici, ma di ogni forma di condizionamento e controllo sempre dietro l’angolo.

È vitale difendere la ricchezza del nostro lessico, i libri indipendenti, l’informazione libera, il diritto di confronto, una tutela vera e sostanziale, non burocratizzata, del privato.

È urgente costruire, rinforzare il pensiero critico.

È vitale conservare memoria della storia, privata e pubblica. Di quella che si è realmente snodata nei campi della vita, perché, citando liberamente, se tutti quanti accettano la menzogna costruita o imposta, se tutti i documenti raccontano la stessa favola, ecco che la menzogna diventa un fatto storico, quindi vera. Perché chi controlla il passato controlla il futuro. Ed è chi controlla il presente a controllare il passato.

Alessandra Mazzei
Autore: Alessandra Mazzei

Diploma classico, laurea in Lettere classiche a La Sapienza, Master in Pedagogia, insegue una non facile conciliazione tra bios theoretikos e practikos, dimensione riflessiva e solitaria, e progettualità concreta e socialmente condivisa. Docente di Italiano e Latino, già Assessore alla Cultura e Turismo di Rossano, impegnata in diverse associazioni socio-culturali, ma, prima e più di ogni altra cosa, mamma, felice, di Chiara Stella, Gabriele e Sara Genise. Ha grande fiducia nelle capacità dei giovani, degli studenti, di quelli che poi restano e di quelli che vanno pensando un giorno di tornare. Spera di poter contribuire, insieme a loro e ad amici ottimisti, alla valorizzazione di questa terra di cui sente da sempre la forza delle radici, accanto al bisogno di paesaggi culturali ampi e aperti. Ama la scrittura, che vive, al pari dell’insegnamento, come itinerario di ricerca e crescita personale, da coltivare in forme individuali e collettive.