La violenza ai danni di mariti-padri non è equiparabile alla violenza di genere
Se la violenza è violenza e non può essere discussa è pur vero che questa ha, quasi sempre, un’origine e dei risvolti specifici che non possono essere ignorati

La scorsa settimana, sulla scia dei festeggiamenti per la festa del papà, è stato acceso un faro sul tema che riguarda i comportamenti ritorsivi e le violenze perpetrate ai danni dei mariti-padri allorquando questi si ritrovano a divorziare dalle loro mogli.
Posto che questo tipo di abusi esistono e meritano di essere riconosciuti, raccontati e affrontati, trovo che il collegamento diretto con la violenza di genere sia fuorviante per la difesa di entrambe le cause, e spiego a mio parere perché.
La violenza e gli abusi ai danni delle donne da parte degli uomini si manifestano in svariati contesti - tutti a dire il vero - e con varie "intensità". La matrice di questi atti - che spesso hanno a che fare con il rischio di perdere la propria vita (cosa che non mi pare avvenga per i padri separati) - è di tipo culturale ed è profondamente legata al genere e al dislivello di potere e privilegi tra le parti (economici, sociali e così via). Questa violenza si muove dall'uomo verso la donna per via di una presunta disparità (non disuguaglianza!) e tanto basta.
Nel caso, invece, dei mariti-padri esiste una specificità che risiede nel rapporto tra i due soggetti e che riguarda la storia di cui sono i protagonisti (e più specificatamente la genitorialità o comunque il rapporto marito-moglie) pertanto non è un abuso che si abbatte sugli uomini in quanto tali e in maniera indiscriminata, come avviene invece nei riguardi delle donne. È evidente che hanno una genesi e dei risvolti completamente differenti.
Paragonare poi i due fenomeni è come paragonare - ora farò un esempio un po’ infelice e non perfettamente calzante ma insisto per farmi capire - le morti della guerra alle torture psicologiche di una data prigione. Sono violenze entrambe, non c'è dubbio, ma non sono sovrapponibili né nelle premesse, né nei numeri, né negli effetti. Nella prima si muore e i morti sono tanti. Nella seconda che, ripeto, ha dignità di essere raccontata, ha una sua gravità e può avere anche tristi epiloghi, non si riscontra questo grado di incidenza e pericolosità tale da farlo assurgere a fenomeno sociale.
In più - ed è la cosa che trovo più pericolosa in queste operazioni - quando nel rivendicare le ragioni di una battaglia si scredita o si svilisce la natura di un'altra e la si utilizza strumentalmente per ridimensionarla allora si compie un gioco assai pericoloso: creare conflitto, generare scontro. Nessuna lotta toglie spazio ad altre lotte ma screditare l'una per fare spazio all'altra trovo che sia una mossa profondamente irrispettosa.
Per questo credo che, se proprio vogliamo far rientrare questi comportamenti nella più ampia cornice della violenza di genere, allora potremmo tuttalpiù dire che questo problema ha strettamente a che fare coi ruoli sociali che queste disparità hanno consolidato nel tempo, e che hanno indotto gli uomini e le donne ad assumere comportamenti frutto dell’adesione a dei modelli sociali prestabiliti. È stato infatti questo modello sbilanciato, che gli uomini hanno sostenuto e difeso, a creare la disparità e le vessazioni di cui oggi sono vittime, creando un sistema che li ha resi poveri e isolati.
Infine, in merito alla questione del tasso di suicidi, che risulta più elevato tra gli uomini, non azzarderei una correlazione così immediata con il fenomeno specifico dei mariti-padri abusati. Le cause andrebbero ricercate magari nel modello di mascolinità machista perpetuata fino ad oggi che spinge questi ultimi ad aderire a un immaginario di forza e invulnerabilità che non lascia spazio alle umane debolezze. Di questa visione del mondo che le donne (alcune) combattono sono evidentemente vittime anche gli uomini. È questo ciò che un sano femminismo chiede: che tutti - uomini e donne - lottino per la parità dei diritti ma anche per un modello alternativo di mascolinità, che renda ciascuno libero di essere ciò che vuole.